La Libia è tornata sulle prime pagine dei giornali. Non solo perché il Parlamento ha approvato l’invio di un ospedale da campo e di 100 parà nella città di Misurata, ma anche perché c’è stata un’offensiva militare che ha coinvolto le maggiori installazioni petrolifere del Paese.
L’offensiva ha consegnato la cosiddetta “Mezzaluna petrolifera” al generale Khalifa Haftar. Il generale è nominalmente sotto l’autorità del parlamento di Tobruk, la Camera dei rappresentanti, ma in realtà Haftar è un uomo solo al comando con un forte sostegno sia dell’Egitto sia degli Emirati. La sua è una strategia di controllo territoriale, non di compromesso politico.
Haftar ha usato la battaglia per la “liberazione” di Bengasi dai “terroristi” strumentalmente e, con il pieno sostegno egiziano, ha rafforzato il suo arsenale. Fin quando era in corso la battaglia per la conquista della città, anche se soltanto in alcuni e residuali quartieri, c’era una giustificazione per ricevere armi, equipaggiamento e addestramento dall’Egitto e dagli Emirati. Questi ultimi, come rivelato dalle intercettazioni pubblicate dal sito britannico Middle East Eye, stanno conducendo direttamente dei bombardamenti sulla città.
In realtà, il sostegno dato nominalmente per combattere l’infinita battaglia di Bengasi serviva a rafforzare Haftar per poter consolidare il suo controllo sulla Cirenaica e poi lanciare un’offensiva per conquistare i terminal petroliferi della Mezzaluna.
Le azioni di Haftar però sono state condizionate dalla posizione congiunta euro-americana, basata sulle risoluzioni Onu che Washington aveva voluto già un anno fa. La risoluzione 2.278, per esempio, vieta transazioni in petrolio libico che non passino attraverso la Società nazionale del petrolio, Noc (National Oil Corporation) basata a Tripoli e fedele, più o meno, al governo della capitale. A poche ore dall’inizio dell’offensiva, un comunicato congiunto di americani ed europei aveva detto senza mezzi termini che queste risoluzioni sarebbero state fatte valere, e in passato gli americani avevano fatto intervenire le loro teste di cuoio per farle rispettare. Haftar ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e ha offerto, attraverso il “suo” parlamento di Tobruk, di consegnare la gestione dei terminal alla Noc di Tripoli. I proventi della vendita andranno sui conti della Banca centrale della capitale, anch’essa più o meno fedele al governo riconosciuto internazionalmente. Questa decisione mette Haftar in una posizione di forza. Sarà lui a far arrivare la maggior parte dei proventi petroliferi che lo stato libico usa per pagare gli stipendi dell’80 per cento della forza lavoro. Da questa posizione, lui e i suoi padrini mediorientali cercheranno di dettare le condizioni sul futuro della Libia.
Haftar potrà contare, oltre che su questa posizione nel settore del petrolio, sul suo controllo della Cirenaica e su un esercito molto meglio armato — in parte in violazione dell’embargo Onu sulle armi. Inizialmente, il Primo ministro del governo di Tripoli, Serraj, aveva invocato una reazione militare ma ora offre un ramo di ulivo. Da una nuova battaglia attorno ai pozzi e ai terminal non gli verrebbe nulla di buono mentre il Paese ha bisogno dei soldi del petrolio per evitare una crisi umanitaria.
La situazione attuale, creata in parte grazie al coordinamento euro-americano, crea potenzialmente le condizioni per un accordo perché Tripoli e Haftar hanno bisogno l’uno dell’altro: Haftar ha l’infrastruttura ma Tripoli controlla il “veicolo” istituzionale e finanziario per fare i contratti e incassare i soldi. Un accordo confermerebbe che il petrolio è una risorsa di tutti i libici e non un bottino in palio per chi ha l’esercito più armato e più spietato. Dal punto di vista internazionale, l’Italia può giocare un ruolo importante per preservare il ruolo neutrale e anzi unificatore del petrolio. La divisione oppure la tripartizione del Paese, al contrario di quanto si possa credere, non sarebbe un elemento pacificatore, anzi: il confine tra Tripolitania e Cirenaica è dubbio e corre da qualche parte ai lati o al centro della Mezzaluna petrolifera.
L’Italia potrebbe far valere la sua presenza a Misurata in senso pacificatore: come sostegno a chi sta combattendo l’Isis; come deterrente contro ogni possibile avanzata di Haftar verso ovest; come incoraggiamento a quelle tendenze già presenti in città che vogliono porre fine ai combattimenti con le altre fazioni libiche. Il Ministro Gentiloni parteciperà prossimamente all’Assemblea generale dell’Onu a New York dove è previsto un incontro ad altissimo livello sulla Libia. Dovrebbe presentarsi a questo incontro con un piano politico di mediazione che combini la gestione comune delle risorse di tutti i libici con un alto livello di decentralizzazione. Queste posizioni dovrebbero essere parte di una strategia più vasta che miri alla riconciliazione tra città, tribù e diversi gruppi sociali libici. Finora il petrolio è stato un motore dei combattimenti, perché diventi uno strumento di pace è necessario aiutare i libici a negoziare un nuovo patto sociale.