L’«uomo forte» di Bengasi: «Consiglierei ai Paesi stranieri e al vostro di non interferire nei nostri affari interni. Lasciate che siano i libici a occuparsi della Libia»
Dalla guerra contro l’Isis e il suo grande rispetto per il rapporto con Mosca, passando per la questione migranti, sino alle difficoltà nelle relazioni con l’Italia e con il governo di Fayez Serraj a Tripoli: per quattro ore il nuovo uomo forte della Cirenaica ha accettato di incontrarci nel suo ufficio in una base super protetta vicino all’aeroporto di Bengasi. «Gli italiani da noi sono sempre benvenuti. Peccato che alcuni abbiano scelto di stare con i nostri nemici», esordisce il generale Khalifa Haftar. Nato il 7 novembre 1943 nella regione di Bengasi, sostenitore della prima ora di Gheddafi, diventato suo generale fidato, poi però passato tra i ranghi dell’opposizione, esiliato negli Stati Uniti e tornato con la speranza di guidare da militare di professione la rivoluzione del 2011, Haftar replica offeso a coloro che lo paragonano al Colonnello per il suo piano di ricostruire l’esercito partendo dalla Libia orientale, mirando a sconfiggere le milizie e scacciare i jihadisti da tutto il Paese. «Io come Gheddafi? Una menzogna ridicola e senza fondamento! Chi lo dice ignora la mia lunga e sofferta lotta contro di lui», sbotta brusco.
Generale, tre anni fa l’accusarono di golpe quando annunciò la sua intenzione di usare il vecchio esercito contro il terrorismo dell’Isis. Oggi i suoi fedelissimi sono alla periferia di Tripoli e la regione di Bengasi appare molto più sicura. Dove porta la sua battaglia?
«Per comprendere i nostri successi occorre ricordare che nascono dalle delusioni dopo la caduta di Gheddafi. I libici si attendevano pace, sicurezza e democrazia. Ma da subito sono cresciute le forze del radicalismo legate ai Fratelli musulmani. I libici già nel 2012 vennero chiamati al voto. Però dopo decenni di dittatura non avevano alcuna idea di cosa volesse dire democrazia. Semplicemente non erano pronti. Così dal Consiglio di transizione e dal primo Parlamento di Tripoli sono emerse le forze del terrorismo. Il popolo ha eletto le persone sbagliate, che ne hanno approfittato per promuovere Al Qaeda e persino il nuovo Isis assieme a una visione pericolosa dell’Islam».
Lei quando è sceso in campo?
«Voi europei non sapete con quanta rapidità l’Isis e i movimenti islamici locali come Ansar al Sharia abbiano cominciato a minacciare, sequestrare, assassinare tutti coloro che consideravano nemici. È iniziato specialmente nell’Est, ma si è sparso a macchia d’olio. Dal 2012 sino all’inizio della mia Operazione Karama (Dignità, ndr) nel maggio 2014 sono stati uccisi oltre 700 militari e almeno altrettanti civili tra Bengasi e la Cirenaica: per lo più giornalisti, intellettuali, cristiani, avvocati, professori, giudici, imam moderati, difensori dei diritti delle donne, esponenti della società civile. Chiunque protestasse, anche solo su Internet, veniva eliminato brutalmente e le foto dei cadaveri diffuse per incutere paura, obbligare al silenzio».
Come si è organizzato?
«A Tripoli ho provato a lanciare appelli, a chiedere aiuto ai vecchi militari. Ma il governo voleva arrestarmi. Allora sono venuto a Bengasi. Ho raccolto 300 volontari tra i soldati più fedeli assieme a 25 ufficiali armati e dotati di 75 veicoli di vario genere. Il 16 maggio 2014 abbiamo attaccato in forze Rafallah Sati, la base dell’Isis e Al Qaeda nel centro di Bengasi. Loro controllavano 7.000 uomini. Ma non si aspettavano il nostro assalto e abbiamo ucciso 250 dei loro capi. Il giorno dopo davanti alla mia caserma c’erano 2.000 nuovi volontari, tanti con i loro fucili e negli zaini cibo per un mese. Poi il nostro numero non ha fatto che crescere. Ora conto di una forza di 50.000 uomini, che controlla circa l’80 per cento del Paese. Pattugliamo i pozzi petroliferi e i terminali qui nell’Est a Ras Lanuf, Brega, Al Sidr. Nessuno ruba gas o greggio. Vige la legalità. Anche i berberi delle montagne di Nafusah, a sud di Tripoli, sono nostri alleati».
In quella zona si trova prigioniero Saif al Islam, il figlio più noto di Gheddafi. Ha un futuro politico?
«Non lo credo proprio, è politicamente bruciato».
Quante perdite ci sono state?
«L’Isis e i jihadisti hanno subito circa 7.000 morti. Ma hanno ricevuto nuovi volontari dall’estero. Oggi ne restano 150 a combattere accerchiati in due quartieri di Bengasi. Noi abbiamo perso circa 5.000 soldati. Purtroppo i jihadisti vengono aiutati anche da alcune tra le milizie di Misurata, che sono radicali e combattono il nostro progetto di smantellarle in nome della supremazia dell’esercito».
Misurata ha perso 1.000 uomini contro l’Isis negli ultimi mesi a Sirte, perché dovrebbe aiutare le colonne jihadiste a Bengasi?
«Senza l’aiuto americano Misurata non avrebbe mai preso Sirte. Loro si sono mossi solo quando hanno visto che i miei soldati stavano per accerchiarla. E comunque alcune delle loro brigate, come la Faruq, sono alleate dell’Isis, ne condividono fanatismo e credo religioso».
Ultimamente lei è stato a Mosca. Una visita che coincide con la crescita dell’influenza russa in Medio Oriente, specie dopo la ritirata dei ribelli siriani da Aleppo. Ha ricevuto aiuti da Putin?
«La Libia ha una lunga storia di ottime relazioni con la Russia. Io mi sono recato a Mosca anche perché volevo rimettere in vita alcuni contratti interrotti nel 2011. Ho molto apprezzato la politica di Putin e i suoi sforzi nella lotta contro il terrorismo in Medio Oriente».
Le ha promesso armi?
«Mosca fa parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che ha votato l’embargo militare nei nostri confronti. Si muove in modo serio, rispettando le convenzioni internazionali. Ci è stato detto che le armi possono arrivare solo dopo la fine dell’embargo e Putin si impegna per cancellarlo. Comunque noi ci aspettiamo aiuti da tutti per combattere l’Isis. Saremmo ben contenti di cooperare con la Gran Bretagna, la Francia o la Germania. Italia compresa, purtroppo sino a ora il governo di Roma ha scelto di aiutare soltanto l’altra parte della Libia. Avete mandato 250 uomini tra soldati e personale medico per gestire l’ospedale di Misurata. A noi nulla. Negli ultimi giorni ci era stato promesso l’invio di due aerei per trasportare negli ospedali italiani alcuni dei nostri feriti gravi. Ma sino a ora non sono arrivati, forse per il brutto tempo. Ci saremmo aspettati maggior cooperazione. Non abbiamo apprezzato il discorso di fine d’anno del vostro capo di Stato maggiore in visita a Misurata».
Cosa intende?
«Ha detto che l’Italia sostiene le milizie di Misurata, cosa che va oltre una pura missione medica di pace. Conosco le tematiche del vostro ospedale. Il numero due della vostra intelligence è un mio caro amico, viene spesso a trovarmi e ne abbiamo parlato più volte. Però consiglierei ai Paesi stranieri e al vostro di non interferire nei nostri affari interni. Lasciate che siano i libici a occuparsi della Libia».
I migranti in arrivo dalla Libia rappresentano un grave problema europeo. Siamo tutti coinvolti, non crede?
«Noi siamo un Paese di transito. Se il nostro esercito controllerà i nostri confini meridionali il problema si ridurrà per tutti. E ciò vale anche per la questione degli impianti energetici tanto cari all’Italia. Sarei ben contento di parlarne con i dirigenti dell’Eni».
L’Italia come gran parte dell’Europa e l’Onu sostengono il governo di unità nazionale del premier Serraj. Lei è pronto a cooperare con lui?
«Siamo in una situazione di guerra, dominano le questioni legate alla sicurezza. Le circostanze non sono favorevoli ai tempi della politica. Occorre combattere per salvare il Paese dagli estremisti islamici. Io comunque ho cominciato a dialogare con Serraj ben due anni e mezzo fa. Senza alcun risultato concreto. Battuti gli estremisti potremo tornare a parlare di democrazia ed elezioni. Ma non ora».
Lo stesso Serraj chiede di negoziare. La stampa algerina scrive che state per incontrarvi. Conferma?
«No. Non so niente di questo. Personalmente non ho nulla contro Serraj. L’ultima volta ci siamo parlati direttamente il 16 gennaio 2016. Il problema non è lui, bensì le persone che gli stanno attorno. Se intende davvero lottare per pacificare il Paese, impugni il fucile e si unisca ai nostri ranghi. Sarà sempre benvenuto».