Intervista al premier libico nella sua residenza di Tripoli. In una capitale in difficoltà, elettricità col contagocce, code ai distributori di benzina, banche prive di contanti, l’ambasciata italiana ha riaperto i battenti e tre giorni fa è stata sfiorata da un attentato
«Grazie all’Italia per il suo ruolo coraggioso da apripista per la stabilizzazione della Libia». Lo ripete più volte Fayez Sarraj in quasi 50 minuti d’intervista. Il premier del governo di unità nazionale libico insediatosi lo scorso fine marzo a Tripoli ci riceve nella sua residenza: una villa non diversa da quelle che la circondano in un quartiere residenziale del centro con una presenza discreta di guardie del corpo, a contraddire chi lo descrive come sempre blindato nella base della marina militare di Abu Sitta. Sono tempi difficili nella capitale. Corrente elettrica col contagocce, lunghe code ai benzinai, banche prive di contante, un ex premier legato ai partiti islamici che parla di colpo di Stato e definisce Sarraj «illegittimo», rapimenti, violenze, milizie spesso in lotta tra loro con poco o nullo controllo da parte del governo centrale. Ma Sarraj è rassicurante, ottimista, sorride, conferma che «tra poco» incontrerà al Cairo il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, e ribadisce di continuare a credere nel dialogo politico quale «unica via» per uscire dalla crisi. In Italia crescono le critiche alle scelte del nostro governo in Libia.
C’è chi afferma che riaprire per primi la nostra ambasciata a Tripoli è stato un azzardo e prende corpo l’ipotesi di offrire con più determinazione un ruolo ad Haftar. Cosa risponde? «Tra Italia e Libia c’è sempre stata una relazione privilegiata e speciale. Per motivi geografici, storici, culturali voi ci siete vicinissimi, siete il più prossimo dei Paesi europei. L’Onu e l’Europa hanno sostenuto il nostro governo sin dalla sua nascita, ma l’Italia è sempre stata la più attiva e coerente nel darci il suo incondizionato appoggio. Ve ne sono infinitamente grato: ci aiutate nella lotta al terrorismo, avete inviato un ospedale a Misurata, avete ricoverato nelle vostre strutture mediche in Italia i nostri feriti più gravi nei combattimenti contro Isis a Sirte, create occasioni di cooperazione economica, ci garantite il vostro sostegno diplomatico. Quella di riaprire per primi l’ambasciata è stata una mossa importantissima. Non è affatto un punto di debolezza, anzi, vi dà forza sul territorio. Noi abbiamo un estremo bisogno del sostegno internazionale e l’Italia fa da apripista. Un messaggio positivo e una luce verde agli altri Paesi europei affinché a loro volta riaprano le ambasciate. I vostri servizi militari hanno ben studiato la situazione a Tripoli e hanno correttamente valutato che la situazione è abbastanza sicura per mandare il vostro ambasciatore».
Eppure sabato scorso c’è stata un’esplosione a soli 400 metri dall’ambasciata. Forse un auto bomba con due kamikaze. C’è chi ricorda il caso dell’assassinio dell’ambasciatore americano a Bengasi nel 2012. «L’esplosione è avvenuta di fronte al ministero della Pianificazione. Nella zona ci sono altre sedi diplomatiche e altri possibili obbiettivi. Non sappiamo neppure se sia stato un attentato o un incidente. Forse la vostra ambasciata non c’entra nulla. Ci sono molti aspetti contradditori. È aperta un’inchiesta, attendo le conclusioni. Vorrei ricordare comunque che anche nelle capitali europee ci sono stati episodi di violenza e terrorismo, e molto più gravi di questo. Ma ciò non può fermarci, non possiamo scappare e nasconderci. Dobbiamo continuare a lottare assieme contro chi vuole destabilizzarci. Ci sono forze che mirano a seminare il panico, a enfatizzare l’insicurezza».
Solo pochi giorni dopo l’annuncio della riapertura dell’ambasciata italiana l’ex premier Khalifa Ghwell ha mandato i suoi fedelissimi ad occupare cinque ministeri, pare una sorta di colpo di Stato strisciante. Lei però resta nei suoi uffici. Che accade? «Tutta propaganda. Una commedia ridicola e senza alcun fondamento. Non è affatto chiaro cosa stia facendo Ghwell, se non provare a creare caos e destabilizzazione politica. Un pugno di suoi seguaci si muove per la città, entra ed esce da qualche ministero, dove comunque si continua a lavorare normalmente. Quella di Ghwell è una finzione fatta di annunci altisonanti, una sorta di golpe mediatico, che però non incide sulla realtà del Paese».
Come valuterebbe una mossa di apertura italiana nei confronti di Haftar, per esempio rimettendo in funzione il consolato italiano a Bengasi? «Noi incoraggiamo ogni Paese ad riallacciare qualsiasi tipo di contatto con tutti gli elementi della società libica. Vorremmo quindi che non solo l’Italia, ma tutti i partner europei e della regione riaprissero i loro consolati a Bengasi. È sano, positivo. Sempre che ciò avvenga in accordo con il nostro governo legittimo qui a Tripoli. Gli italiani in particolare hanno i mezzi per valutare la situazione della sicurezza e Bengasi. Nel caso volessero riaprire la loro sede in loco, ci aspettiamo dunque che si coordinino con noi»
L’Egitto, forte anche del nuovo rapporto con la Russia, sta organizzando un incontro tra lei a Haftar al Cairo. Conferma? «Confermo, dovrebbe avvenire presto, credo prima di un mese, forse tra pochi giorni, la data va ancora definita. Le nostre relazioni con l’Egitto sono ottime, siamo amici, abbiamo rapporti antichi e forti. Io stesso ho visto al Cairo il presidente al Sisi poche settimane fa. Mi ha confermato di essere interessato ad una Libia unita, forte, indipendente e sovrana. E ciò indipendentemente dal suo rapporto con la Russia. Su queste basi al Cairo stanno lavorando al mio colloquio con Haftar, che credo sarà a quattr’occhi, diretto, senza altri mediatori. Io sono senz’altro pronto a cercare con lui una soluzione per la Libia, assieme possiamo farlo».
A Roma c’è l’inquietudine che la crescita del ruolo russo possa in qualche modo marginalizzare quello italiano. «Non siamo noi ad organizzare l’incontro del Cairo. Ma non avrei alcun problema se altri partner internazionali volessero collaborare al suo successo».
Tutto il mondo guarda a Trump e alla sua politica estera. «Anch’io, certamente».
Il presidente Obama stava con l’Italia nel sostenere il suo governo a Tripoli. Ora lei teme che Trump possa appoggiare la politica russa, che sembra più prossima ad Haftar? «Si tratta di un nodo importantissimo. Confermo: l’ex amministrazione americana ci è stata molto amica, ha legittimato il nostro governo e la lotta al terrorismo. Nel contempo guardo con attenzione alle dichiarazioni di Trump, che a sua volta mostra la più netta determinazione a combattere Isis. Mi augurio che ciò prosegua, come del resto che tra Roma e Washington continui la piena coordinazione delle rispettive politiche nei confronti della Libia».
In un’intervista al Corriere della Sera il primo di gennaio lo stesso Haftar ha sostenuto che questo è il momento di fare la guerra a Isis e di smantellare le milizie, non quello della politica. Ha aggiunto che lei sarebbe il benvenuto, se volesse unirsi a lui. Cosa risponde? «Ho parlato molte volte con Haftar. L’ho incontrato personalmente a Marja (in Cirenaica, ndr.) un anno fa. L’ho invitato a unirsi al nostro governo legittimo, sotto il nostro ombrello politico, in qualità di militare, di alto ufficiale. Lui si è battuto contro Isis a Bengasi, noi a Sirte. Possiamo unire la nostre forze, noi come autorità politica e lui in quanto militare di grande esperienza. Oggi lo invito ancora alla piena cooperazione, abbiamo un nemico comune».
Però Haftar sembra poco propenso a sottomettersi ad un autorità politica superiore. Sostiene di controllare l’80 per cento della Libia, grazia anche alla sua alleanza con Zintan in Tripolitania, si presenta come il più forte. «Non credo che quella cifra sia davvero fedele alla realtà. Ma poco importa. Noi siamo il governo legittimo, sostenuti all’estero e da varie componenti della società libica in tutto il Paese. Va però aggiunto che non esiste una soluzione militare. Il rischio è altissimo. Insistere solo sul potere delle armi ci farebbe precipitare in una sanguinosa guerra civile con massacri e anarchia ancora più gravi. Ci sarebbero attori esterni pronti ad intervenire facendo leva sui loro alleati locali ben contenti di menare le mani. La situazione sarebbe fuori controllo. Haftar è padronissimo di avere le sue ambizioni personali. Ma qui stiamo parlando del futuro collettivo del nostro Paese, occorre lavorare e trovare compromessi per pacificarlo».
Lei ha già un piano? Conferma che intende proporre ad Haftar il ruolo di capo supremo dell’esercito unificato tra est e ovest? «Non intendo esagerare i problemi. Trovo sbagliato parlare in termini di Tripolitania e Cirenaica. Occorre però creare istituzioni unificate. Un esercito comune sarebbe tra l’altro fondamentale contro chi gonfia le differenze tra est e ovest del Paese».
Lei ha appena firmato un nuovo accordo con l’Italia per il controllo dei flussi migratori. Quali le difficoltà? «Il problema centrale riguarda il controllo dei nostri confini meridionali. I barconi che partono dalle nostre coste verso nord sono solo la conseguenza della mancanza di coordinamento con i Paesi limitrofi. Ne abbiamo appena parlato con il vostro ministro degli Interni Minniti durante la sua visita a Tripoli. Noi siamo solo un Paese di transito. Occorrono accordi in particolare con Ciad, Niger, Mali, Sudan. L’Italia offre mezzi e aiuti importanti. Ma le questioni sul tavolo sono gigantesche e riguardano anche la necessità di fermare i flussi migratori stabilizzando i Paesi di partenza. La Libia da sola può fare poco. Però appena abbiamo i mezzi funzioniamo bene. Lo dimostra il fatto che nonostante tante difficoltà siamo tornati a produrre oltre 700.000 barili di greggio al giorno. All’Eni sanno bene che anche Zintan sta cooperando favorendo l’apertura di nuovi pozzi».