l fatto che siamo il solo paese occidentale ad avere un’ambasciata appare una scelta che stride con la decisione di fare musica sempre nel «concerto europeo».
Per quando è previsto l’arrivo in Libia di altri ambasciatori europei a testimoniare, assieme al nostro Giuseppe Perrone, l’impegno dell’Europa in quella tormentata città? Il 10 gennaio l’Italia ha aperto una propria sede diplomatica a Tripoli inviando un proprio rappresentante, Perrone appunto. A conforto di questa decisione, in quelle stesse ore è giunto nella capitale libica anche un altro italiano di rango, il ministro dell’Interno Marco Minniti.
Trascorsi pochi giorni, un’autobomba a qualche centinaio di metri dalla nostra sede diplomatica ha salutato (fortunatamente senza provocare morti se non tra gli attentatori) l’evento. È stato un modo, l’apertura di un’ambasciata, per testimoniare sostegno a Fayez al Serraj, l’uomo che le Nazioni Unite hanno stabilito debba traghettare quel Paese verso un futuro accettabilmente pluralista. È stato un modo, quello degli attentatori, di manifestare disapprovazione alla nostra iniziativa.
Ghwell viene da una famiglia della resistenza che si batté contro l’occupazione italiana; tra il marzo 2015 e l’aprile 2016 guidò a Tripoli un governo a forte presenza islamista; dopo l’arrivo di Serraj, il 15 ottobre scorso si è posto a capo delle milizie di Misurata e qualche tempo fa aveva già tentato un golpe. A tre giorni dall’apertura della nostra ambasciata, i miliziani di Ghwell hanno occupato i ministeri del Lavoro, dei Martiri e della Difesa (che però da tempo era stato trasferito in un altro edificio). Al Serraj — in un intervista al Corriere concessa due giorni fa a Lorenzo Cremonesi — sostiene che quella di Ghwell è stata una «commedia ridicola» e che non è detto l’attentato fosse contro l’ambasciata italiana. Potrebbe esser stato, ha ipotizzato l’attuale premier, «un incidente». Il leader tripolino ha poi detto che sono i nostri servizi a «valutare correttamente» che l’Italia possa avere un ambasciata a Tripoli e in ogni caso ha messo qualche carro armato a difesa della stessa.
Quanto ad Haftar, Serraj ha confidato a Cremonesi di averlo già incontrato e di volerlo rivedere nuovamente. Presto. Prima, si presume, dell’incontro che i leader europei terranno il 3 febbraio a Malta per decidere che le nostre navi entrino in acque libiche per «sostenere», su loro richiesta, la guardia costiera nella lotta a scafisti e trafficanti. Detto così sembra tutto normale. Ma il clima, come avrà modo di constatare Federica Mogherini quando la prossima settimana incontrerà Serraj, non è per niente sereno. Dopo il viaggio di Minniti a Tripoli e l’apertura della nostra sede diplomatica, Abdullah al-Thani primo ministro a Tobruk (la capitale di Haftar) ha dichiarato: «Una nave militare italiana, carica di soldati e munizioni, è entrata nelle acque territoriali libiche; si tratta di una chiara violazione della carta delle Nazioni Unite e la consideriamo una forma di rinnovata aggressione». Il governo di Tobruk ha nel contempo accusato quello tripolino di aver «consentito ai nipoti di Benito Mussolini di tornare in Libia». Un’obiezione che potrebbe essere estesa prossimamente anche alla Turchia (nel caso davvero intendesse aprire una propria ambasciata) che dominò su quelle terre fino al 1911. Lo stesso gabinetto di al-Thani ha poi definito «illegittimo» l’appalto concesso da Serraj a una ditta italiana per la ricostruzione dell’aeroporto di Tripoli. Ghweil, l’uomo del tentato golpe di cui si è detto all’inizio, ha chiesto la chiusura dell’ospedale militare italiano a Misurata (costruito nell’ambito della cosiddetta missione Ippocrate per la quale sono impegnati circa trecento nostri medici in divisa). E anche la milizia di Zintan, alleata di Haftar, minaccia di sabotare il gasdotto Greenstream dell’impianto Eni di Mellitah se non vengono ritirati gli italiani da quell’ospedale di Misurata.
Gli umori di Haftar — protetto, ripetiamo, dall’Egitto — nei confronti del nostro Paese non sono buoni. Da molto tempo. Alla fine dell’aprile scorso ci furono in Cirenaica manifestazioni inneggianti ad Haftar che, con l’aiuto dei francesi, aveva appena riconquistato Bengasi. Lì per lì non si capì perché le persone in piazza, oltre a calpestare manifesti con il volto del delegato Onu Martin Kobler, avessero dato alle fiamme bandiere italiane. In seguito qualcuno di loro spiegò che si trattava di una risposta al ministro italiano della Difesa Roberta Pinotti colpevole solo di aver esortato Haftar a «sostenere» il governo Serraj. L’allora ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, capì l’antifona, lasciò passare qualche mese e, a fine settembre, dichiarò di «condividere» l’attenzione continua del governo egiziano alla situazione libica. Il Cairo, fece osservare Gentiloni, «ha sempre detto di sostenere il processo di stabilizzazione voluto dall’Onu, appoggia il governo Serraj, c’è la firma dell’Egitto sotto tutti i documenti che stanno segnando l’evoluzione di questo processo politico».
Per questo Gentiloni auspicò che l’Egitto si attivasse «con la sua indubbia influenza» per favorire il dialogo dell’Est del Paese con Tripoli, con il governo Serraj. «E attenzione», aggiunse, «non credo che una Libia divisa aiuterebbe la sicurezza dell’Egitto; la Libia divisa entrerebbe in una fase di conflitto permanente, avrebbe effetti destabilizzanti su tutti i Paesi vicini». E’ interesse dell’Italia e dell’Egitto, concluse, «lavorare assieme per una Libia unita e stabile». Parole assai calibrate da cui è lecito desumere che anche i preparativi per l’apertura di un nostra ambasciata a Tripoli abbiano fatto parte della strategia italiana di «lavorare assieme» all’Egitto «per una Libia unita e stabile». Ma allora come si spiegano le indispettite reazioni dell’ «egiziano» Haftar? Quell’Haftar che, oltretutto, nei giorni dell’inaugurazione della nostra ambasciata era ospite della portaerei Kuznetsov da dove, in video conferenza, aveva ripreso con il ministro della Difesa moscovita Serghei Shoigu i termini del dialogo avviato a novembre con il capo del dicastero degli Esteri Serghei Lavrov per un «sostegno militare» russo alla causa di Tobruk.
Nel frattempo Gentiloni, asceso dal ministero degli Esteri alla Presidenza del Consiglio, si è subito messo in luce per abilità, discrezione e prudenza. Doti, soprattutto l’ultima, per le quali sarebbe arduo supporre che l’apertura di un’ambasciata a Tripoli non sia stata concordata con il consesso europeo. Ma è sufficiente questa intuibile intesa che, peraltro, nessun ministro degli Esteri della Ue ha avvertito il bisogno di rendere esplicita? E’ evidente che un nostro ambasciatore a Tripoli aiuterà l’Italia a varare politiche più stringenti in materia di emigrazione e questo spiega la presenza del ministro Minniti nella capitale libica nei giorni in cui si è brindato per l’apertura della nostra sede diplomatica. Adesso, però, il fatto che l’Italia sia il solo paese occidentale ad aver lì un’ambasciata appare come una scelta che stride con la decisione di fare musica sempre e comunque nel «concerto europeo». Stride e pone interrogativi: non soltanto in tema di sicurezza (sarebbe da ipocriti non ricordare l’orrenda fine che fece nel 2012 l’ultimo ambasciatore americano in Libia, Chris Stevens) ma per la curiosa circostanza che, dopo aver festeggiato tra di noi l’essere arrivati primi in quel di Tripoli, ci siamo voltati e non abbiamo visto presentarsi al traguardo né i secondi, né i terzi. «Benvenuto apripista!», si è congratulato Serraj con l’ambasciatore Perrone. Peccato che, ad oggi, dietro di lui la pista sia vuota.