Il generale Khalifa Haftar, padrone o quasi della Libia orientale, deve essere stato preso da una crisi di gelosia nell’apprendere che il suo rivale della Libia occidentale Fayez al-Sarraj è stato accolto ieri a Mosca dove ha avuto un lungo colloquio con il ministro Lavrov. Gelosia infondata, come talvolta accade, perché la Russia di Putin non intende mollare Haftar ma piuttosto consolidare le sue aspirazioni libiche agganciando anche il governo filo-Onu (e filo-Italia) di Tripoli. Il Cremlino ha tutto da guadagnare patrocinando un ravvicinamento tra Sarraj e Haftar che gli occidentali non sono riusciti a ottenere da soli. E dopo la Siria sarebbe questa una nuova stabilizzazione promossa dalla Russia, proprio lì dove l’Occidente creò le premesse del caos intervenendo militarmente nel 2011.
L’attivismo russo ci riguarda, visto che il 90 per cento dei migranti che giungono in Italia parte dalla Libia, e che il Memorandum firmato da Serraj e Gentiloni, pur individuando importanti aree di collaborazione con Tripoli, non è in grado da solo né di avviare in Libia una riconciliazione nazionale né di contenere i migranti. L’Italia, senza aggrapparsi a un «ruolo dirigente» almeno in parte velleitario, ha l’occasione di utilizzare il suo rapporto privilegiato con Tripoli in due direzioni. Primo, la mediazione russa va appoggiata nella speranza che si dimostri davvero tale e che coinvolga, come pare sia nei progetti di Putin, l’Egitto e l’America di Trump. Le polemiche negli Usa sui rapporti segreti con Mosca di uomini del Presidente rendono difficile, oggi, una collaborazione aperta in Libia o altrove. Ma Trump dovrà presto fare delle scelte, e la Libia potrebbe diventare un banco di prova delle possibilità d’intesa con la Russia dichiaratamente in chiave anti-Isis. Secondo, dovremmo opporci (e non saremmo i soli) all’ipotesi ripetutamente ventilata della creazione di un «punto d’appoggio» militare russo in Cirenaica, a due passi dalle nostre coste. Il Cremlino smentisce, noi dobbiamo credergli ma tenere gli occhi aperti.