L’ex capo delle operazioni Usa: la democrazia non si esporta
La nona vita del generale Petraeus è un’agenda fitta di conferenze e appuntamenti in giro per il mondo. Non la affronta più con l’uniforme da «king David», come veniva chiamato ai tempi della guerra in Iraq, ma con giacca blu e camicia bianca.
A 64 anni, il generale convinto che per vincere le guerre conti più un tè preso con il capo della tribù locale che un drone, ha la calma di chi è uscito vivo dai conflitti peggiori degli ultimi decenni. E l’umiltà di chi ha visto il proprio culto sciogliersi in uno scandalo sessuale: «Ci sono cose di cui mi pento del mio passato, certo, come tutti», sentenzia alla fine dell’incontro con il Corriere nel Cosmos Club di Washington, circondato dai ritratti di premi Pulitzer e presidenti americani.
«Negli ultimi anni sono stati compiuti passi in avanti verso l’indebolimento dello Stato islamico. Alcuni leader sono stati eliminati e l’Iraq è più stabile. Tuttavia, anche se riusciremo a mettere la nostra bandiera sul territorio di Isis non vorrà dire che la guerra è finita. “La regola di Las Vegas” non si applica in Siria (quello che succede in Siria non resta in Siria, ndr). La guerra degli estremisti islamici è generazionale, continuerà ad alimentare le frustrazioni di giovani in tutto il mondo se non sostituiamo quel sogno fasullo con opportunità e stabilità».
Qual è la strada?
«Dobbiamo continuare a comunicare la verità, ovvero che i combattenti di Isis sono dei perdenti, non dei vincenti. E poi serve un approccio comprensivo che tenga conto di operazioni militari, civili, di cyber security, della politica e del coinvolgimento dei Paesi musulmani: non si può pensare di vincere il terrorismo islamico tenendo fuori gli attori principali dell’area, come l’Arabia Saudita. Per il mondo musulmano è in corso una guerra esistenziale, una battaglia verso la civiltà. Il paradosso della guerra al terrorismo è che non lo puoi battere solo con l’antiterrorismo».
Crede, come Trump, che rimuovere Assad non sia una priorità in Siria?
«Assad è un problema enorme. Ha adottato la strategia di Grozny dei russi: se non puoi sconfiggere gli oppositori, decimali. E così ha fatto, diventando una calamita per l’odio sunnita. Non può essere parte del futuro della Siria, ma prima di eliminarlo bisogna avere un piano».
Qual è il suo giudizio della politica estera di Obama?
«Ci sono successi come l’apertura a Cuba, l’accordo nucleare con l’Iran, quelli sul clima, il Partenariato Trans-Pacifico, lo stop alle sanzioni del Myanmar. Risultati a metà, come l’Iraq e l’Afghanistan. E alcune sconfitte, come le primavere arabe. In Libia avremmo dovuto assistere meglio la popolazione dopo la caduta di Gheddafi».
Considera un errore il sostegno alle primavere arabe?
«Come diceva Churchill, non importa quanto una strategia possa sembrarti meravigliosa, contano i risultati. Quelli ci dicono che ciò che è successo è tutt’altro che meraviglioso. Bernard Lewis sostiene che la democrazia in Medio Oriente sia come un medicinale potente che va somministrato un poco alla volta. Adesso sappiamo che non si possono imporre i nostri valori e la nostra visione».
Cosa pensa delle azioni di Trump in politica estera?
«Abbiamo visto incoraggianti passi avanti in Siria e Afghanistan, un rinnovato impegno verso la Cina, una nuova apertura verso gli alleati giapponesi e coreani. Una sostanziale continuità con la politica estera Usa. La svolta riguarda il piano commerciale, ma non credo che la messa in discussione del Nafta sia del tutto negativa, sono passati più di vent’anni».
Non crede che rapporti commerciali tesi con la Ue possano ostacolare la cooperazione su altri fronti?
«Il discorso fatto da Pence a Monaco ha dimostrato un rinnovato impegno verso la Nato, e le azioni in Ucraina e la posizione sulla Crimea dimostrano il sostegno alle cause europee. L’incremento di budget militare, che considero positivo, potrebbe aumentarlo».
Come vede la relazione tra Trump e la Russia?
«Il portavoce di Putin ha parlato di una nuova Guerra fredda: ha esagerato, ma non vedo il clima di amicizia che minacciano in molti».
E le dimissioni di Flynn, le inchieste: un’esagerazione?
«Una relazione strategica con la Russia, come con la Cina, è opportuna. Anche durante la Guerra fredda i due Paesi dialogavano in maniera strategica. Bisogna farlo tenendo gli occhi ben aperti».
Il presidente ha screditato le istituzioni come la Cia, di cui lei è stato direttore.
«E poi a capo ci ha messo un uomo valido come Mike Pompeo. Molte nomine, come il direttore della National Intelligence Dan Coats o il generale McMaster, sono ottime e smentiscono le invettive».
Sembra molto ottimista nei confronti di Trump…
«Sono un ottimista razionale nei confronti dell’America. Se guardi le news sembra che il Paese sia sull’orlo di una catastrofe ma non è così. Questo Paese ha avuto momenti difficili e tragici nella sua storia. Alcuni li ho vissuti, altri li ho studiati. Siamo usciti indenni perché l’America è il Paese della resilienza, abbiamo un sistema di check and balance straordinario».