L’Airl al libro di Scoppola Iacopini
Un Paese strutturalmente senza memoria come il nostro qualche volta mostra, inaspettatamente, un guizzo di riconoscenza per quelle vittime inconsapevoli della ragion di Stato o “realpolitik” che dir si voglia. E’ il caso dei residenti in Libia espulsi da Gheddafi nel ’70 che tardano ancora a vedere riconosciuti pienamente i loro diritti con adeguati indennizzi a quasi cinquanta anni di distanza. Una storia triste ripercorsa con meticolosa documentazione nell’ultimo libro dello storico Luigi Scoppola Iacopini presentato ieri alla Biblioteca nazionale di Roma in un incontro organizzato dall’Airl (Associazione degli italiani rimpatriati dalla Libia) al quale hanno partecipato il ricercatore dell’Ispi Arturo Varvelli (già autore, nel 2009, del bel libro L’Italia e l’ascesa di Gheddafi) e il vicepresidente dell’Airl Francesco Prestopino.
La mancata “leadership” italiana e la guerra per il petrolio
Non sono mancati interventi della presidente dell’Airl, Giovanna Ortu e dell’ex ambasciatore a Tripoli, Claudio Pacifico che ha spiegato con precisione perché la supposta “leadership italiana” sulle vicende libiche, benchè invocata spesso a gran voce dai principali attori dell’Occidente, Stati Uniti in testa, in realtà è nei fatti scoraggiata per vari motivi, non ultimi gli interessi al controllo delle fonti energetiche. Nel libro di Iacopini si cita del resto un branco tratto dalla “Quarta sponda” di Sergio Romano che mette a fuoco con spietatezza il problema: “Il no alla politica nucleare da parte dell’Italia le ha vietato di concedersi il lusso delle grandi nazioni: la dignità e la fierezza”. Dignità e fierezza che non trasparivano certo tra le righe del cosiddetto comunicato congiunto Dini-Shalgam del ’98 (“una resa bella e buona di un Paese che ha capitolato” secondo l’ex ministro degli Esteri, Renato Ruggiero) e neppure nei successivi baciamano di Berlusconi a Gheddafi che evitò di assumere un qualche ruolo nelle vicende del 2011 (“non volevo disturbarlo”) accodandosi poi, di fatto, all’iniziativa della Francia prima con le basi e poi anche con gli aerei. La Francia che qualche conto in sospeso con Gheddafi lo aveva fin dai tempi della guerra al Ciad (che in realtà era una guerra a Parigi).
Il lavoro dell’Italia a Misurata e con Eunavfor Med
Ma ora l’Italia, dopo avere accompagnato e fatto da “tutor” al lavoro prima degli inviati Onu per la Libia (prima Bernardino Leon e poi Martin Kobler) rischia di disperdere il grande patrimonio di credibilità conquistato finora. L’Italia è l’unico Paese occidentale ad avere riaperto l’ambasciata a Tripoli, è l’unico (se si escludono le poche decine di corpi speciali e uomini di intelligence americani, inglesi e francesi) ad avere messo i “boots on the ground” con le centinaia di medici e militari di supporto dell’ospedale militare di Misurata. Ed è sempre l’Italia che sta guidando la missione europea Eunavfor Med – Sophia che sta formando oltre 70 addetti della Guardia costiera libica per frenare le partenze dei migranti nel Canale di Sicilia.
Senza l’Italia il nuovo dialogo Tripoli-Tobruk
Nonostante tutto questo, l’Italia si è fatta sfilare di mano l’iniziativa politico-diplomatica per una ricomposizione durevole del dissidio tra il premier libico Fayez al Serraj (che governa a Tripoli con il benestare della comunità internazionale) e il generale Haftar di Tobruk. Non più tardi di qualche settimana fa Serraj e Haftar si sono incontrati ad Abu Dhabi, da soli. E’ solo l’inizio di un dialogo dove l’Italia, però, non riveste alcun ruolo. Oggi Haftar si sente più forte oltre che per l’appoggio dell’Egitto di Al Sisi (dove l’Italia sta lentamente scomparendo dallo schermo radar per effetto della triste vicenda Regeni e il mancato invio del nostro ambasciatore Cantini) per il buon rapporto instaurato sia con Trump che con Putin. Insomma nel “grande gioco” l’Italia (insieme all l’Eni e ai lucrosi contratti con la Noc) rischia di rimanere al palo. L’ambasciatore d’Italia a Tripoli, Perrone sta facendo del suo meglio ma non è chiara la strategia che si intende perseguire.
Gentiloni agli Ebrei di Roma: stabilizziamo la Libia
Ieri il premier Gentiloni è intervenuto alla cerimonia del Tempio maggiore di Roma per la cerimonia del cinquantesimo anniversario dell’esodo degli ebrei dalla Libia. “Cerchiamo di contribuire a stabilizzarla la straordinaria terra libica – ha assicurato il presidente del Consiglio – sappiamo che non è facile perché la Libia è un Paese che da tanti anni è stato prima oppresso e poi è diviso. Quante ricchezze, non solo petrolifere ma anche culturali, ha la terra libica che se riuscissimo a stabilizzare potrebbero andare a vantaggio dei libici e di tutta la regione. Se riuscissimo a stabilizzare la regione, potremmo evitare che queste risorse debbano essere sfruttate in modo osceno dai nuovi schiavisti”.
L’Italia leader nell’accoglienza dalla Libia
Una storia, quella dell’esodo degli ebrei fatta di persecuzione ma anche di integrazione come ha ricordato Gentiloni insieme al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, alla presidente della Comunità ebraica romana, Ruth Dureghello e al presidente Ucei, Noemi Di Segni. Un anniversario che per il premier è diventata l’occasione per ricordare lo “sforzo enorme” dell’Italia nell’accoglienza dei migranti e la stabilizzazione della Libia. E anche per lanciare un allarme: si assiste oggi, avverte Gentiloni, in molti Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente a “fenomeni di antisemitismo ma anche di persecuzione dei cristiani” che rischiano di “impoverire” l’area del Mediterraneo e sfociare in casi di “allontanamento delle comunità cristiane”.
Cinquanta anni fa, in concomitanza con la guerra dei sei giorni, gli ebrei di Libia furono vittime di un pogrom: nel giugno 1967 furono costretti alla fuga da Tripoli e Bengasi e tremila di loro arrivarono a Roma, solo con una valigia e i vestiti che avevano indosso. Vennero accolti e, grazie anche allo sforzo di personalità come Shalom Tesciuba e Sion Burbea, omaggiate ieri con un riconoscimento, negli anni si sono integrati. Oggi, ha sottolineato Ruth Dureghello, l’esempio degli esuli libici dimostra che “integrarsi è possibile, rispettando le leggi del Paese che ti accoglie. In un’epoca in cui si parla tanto di migrazioni e troppi attentati colpiscono l’Europa, non restiamo indifferenti al dolore e alla sofferenza di chi è più debole” ma serve “spirito di interesse e curiosità alla diversità, non diffidenza” ha osservato la presidente delle Comunità Ebraiche italiane Noemi Di Segni. E il Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni ha precisato: “La storia dei quel miracolo dell’integrazione insegna molto ai nostri giorni. Nel disastro attuale della Libia, chi ne parla con rimpianto sono proprio gli ebrei che sono stati cacciati”.