L’Italia torna protagonista in Libia, da dove volevano cacciarla insieme a Gheddafi. Con un messaggio politico più generale: il Mediterraneo e la questione dei migranti non deve diventare lo specchio della disunione europea. A pagare i conti della stabilizzazione della Libia, del Nordafrica e del Sahel ieri mancavano al vertice di Parigi la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Gli altri due Paesi che sulla spinta della Francia nel 2011 decisero di far fuori il raìs non perché fosse un dittatore, ma in quanto non rispondeva ai loro interessi e si era buttato nelle braccia degli italiani, venendo a Roma nell’agosto 2010 con accordi da decine di miliardi di dollari.
Per altro se l’Italia allora avesse negato le basi per i raid aerei agli alleati, probabilmente il Colonnello non sarebbe caduto o comunque la traiettoria del regime avrebbe potuto essere diversa (basta interpellare al riguardo l’ex capo di Stato maggiore Camporini).
Gli inglesi, che della Libia post-italiana furono i mandatari insediando re Idris, hanno comunque voluto mettere il loro cappello diplomatico a Bengasi mandando in Cirenaica il ministro degli Esteri Ben Johnson, come per affermare un diritto storico di partecipare all’eventuale spartizione delle risorse, a sostegno del generale Khalifa Haftar, già appoggiato da Francia, Russia ed Egitto.
Nessuno rinuncia alla sua fetta di Libia: inglesi e francesi sono stati a Tripoli i principali sabotatori, insieme alle dazioni locali, dei tentativi dell’Onu di mediazione. Nei fatti hanno sostenuto il generale Haftar, non il governo di Al-Serraj, legittimato dalle Nazioni Unite.
Gli americani, come al solito, dopo avere provocato danni, fanno i pesci in barile, la Libia per loro non esiste, sono impegnati su altri fronti. L’unico motivo di allarme per Washington è che la Russia non si procuri una base in Libia.
Mosca, che ha ricevuto recentemente Haftar, si dimostra prudente: appoggia il generale ma non si fida troppo di lui, così come di Erdogan, l’altro beneficiario degli aiuti miliardari europei per tenersi due milioni di rifugiati siriani e chiudere la rotta balcanica, l’arma con cui ricatta la Germania e l’unione.
Uno dei motivi per cui improvvisamente l’Italia viene lodata da tedeschi e francesi per la sua diplomazia, compreso il codice delle Ong, è che tamponare il caos libico diventa una necessità nel caso si incendiasse il fronte del Mediterraneo sud-orientale in vista del referendum sul Kurdistan iracheno, che si dovrebbe tenere quasi in contemporanea con le elezioni tedesche. Il problema mediorientale non è più tanto Assad ma Erdogan, un membro della Nato che ondeggia tra gli accordi con la Russia e quelli con l’Iran in funzione anti-curda.
Tutti ora dicono di volere riversare soldi in Libia e preparano fantasiosi piani Marshall per lo sviluppo dell’Africa, dopo avere dato una rapida occhiata alle proiezioni demografiche del continente nero nei prossimi trent’anni, ma è poi così vero che bisogna inondare di quattrini la Libia e il Nordafrica per fermare l’ondata di profughi? Sarà importante monitorare come questi soldi verranno spesi perché la favoletta che mandiamo finanziamenti per gli ospedali e le infrastrutture potrebbe non reggere alla prova dei fatti. Bisogna vedere a chi vanno i quattrini e come vengono utilizzati: in fondo gli aiuti, anche consistenti ma non eccezionali, e l’addestramento della guardia costiera libica da parte degli italiani hanno già dato dei risultati concreti. Anche per questo improvvisamente siamo diventati i beniamini dei nostri concorrenti europei. L’Italia ha drasticamente ridotto un flusso che si sta per altro dirigendo sul lato iberico: un risultato non da poco per il ministro degli Interni Minniti.
A essere cinici si potrebbe dire che per rimettere ordine in Libia non serve un nuovo Gheddafi, basta quello di prima. Gli eventuali accordi incoraggianti dalla Francia per aprire gli hot spot in Libia destinati ad accogliere i migranti e selezionarli tra rifugiati politici ed economici potrebbero valere soltanto per noi europei e i libici rispetteranno queste intese fino al momento in faranno loro comodo, cioè garantiranno un afflusso di denaro sufficiente a coprire le perdite sugli introiti del traffico dei migranti. È importante capire come si distribuiscono le fette di torta, cioè gli aiuti, tra capi locali, miliziani e cacicchi tribali.
La Libia di oggi, come quella di Gheddafi, non riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e non può essere considerato un Paese sicuro. In poche parole in Libia non c’è distinzione: tutti i profughi sono considerati clandestini.
Sono cose che si debbono sapere quando si firmano intese con i libici. E sappiamo pure che una Libia a metà non basta per rendere stabile l’ex Quarta Sponda: è vitale rimettere in moto l’economia del petrolio che prima dava da mangiare ai libici ma anche a due o tre milioni di lavoratori africani. L’Italia è tornata protagonista in Libia ma sa che il destino del Paese passa da Bengasi.