È calato il numero degli sbarchi, ma non basta. Proprio in queste ore, la Spagna vede quadruplicare gli arrivi dal Marocco e si va delineando una nuova rotta diretta via Mar Nero tra Turchia e Romania. La soluzione è altrove
Il calo degli sbarchi, in un’estate che si annunciava segnata da flussi migratori almeno in potenza devastanti è, ovviamente, un’ottima notizia (vi corrisponde, peraltro, il calo delle morti in mare). Ma si tira dietro illusioni pericolose, da rimuovere in fretta, nel discorso pubblico tra noi e i nostri partner europei.
La prima, e la maggiore, è che tutto sia risolto, che l’emergenza sia ormai lontana e al più si tratterà di gestire l’ordinario. Non è così. L’attivismo di Marco Minniti, forse il primo da molto tempo ad affrontare la questione tutta intera anziché rifugiarsi in fumisterie dilatorie, ha certo fruttato nel breve periodo. I numeri impressionano: i migranti sono il 51 per cento in meno rispetto a luglio e addirittura l’85 per cento in meno rispetto all’agosto 2016. Si può discutere sull’apertura di credito concessa alla guardia costiera libica, cui è difficile attribuire standard, diciamo, europei. Si può e si deve discutere sulla natura dei 34 «campi» dove, tra Tripoli e Sebha, i libici ammassano a migliaia i profughi, trattandoli né più e né meno come faceva Gheddafi quando era finanziato dal governo Berlusconi con gran sdegno del Pd allora all’opposizione.
Ma è innegabile che una svolta (da coniugare opportunamente con l’annunciato Piano per l’integrazione) ci sia stata. E che non abbia torto il ministro degli Interni spiegando come un trend di 12 mila sbarchi in 48 ore (accadeva appena lo scorso giugno) avrebbe potuto mettere a repentaglio la nostra democrazia già percorsa da gravi tensioni xenofobe.
Tuttavia, proprio in queste ore, la Spagna vede quadruplicare gli arrivi dal Marocco (ancora pochi in termini assoluti ma segno chiaro di tendenza) e si va delineando una nuova rotta diretta via Mar Nero tra Turchia e Romania. Chiusa una via, continuano a riaprirsene altre in un gioco feroce di cui i trafficanti, decisi a difendere il volume d’affari, sono i maggiori player e i migranti le eterne vittime. La battaglia sulle Ong era dunque un cerotto sopra una diga crepata. Dall’altro lato della diga c’è un’intera umanità dolente che non potrà essere fermata a lungo in mezzo al mare o nel deserto, qualsiasi strategia si adotti: perché fugge da morte sicura verso una morte soltanto probabile.
Testimoni oculari raccontano che Al Sisi, durante la famosa visita italiana al Cairo del 3 febbraio 2016 (giorno in cui fu ritrovato il corpo di Giulio Regeni), si permise con la delegazione dell’allora ministra Guidi toni sprezzanti al di là di qualsiasi galateo, rammentandoci la possibilità di scaricare sulle nostre coste uno tsunami di centinaia di migliaia di disperati solo allentando un po’ la guardia. Desertificazione e siccità sono del resto più forti di qualsiasi milizia. La carestia, solo in Sud Sudan, Corno d’Africa e nel bacino del lago Ciad, ha spinto alla fame trenta milioni di persone; e solo in Somalia, nel 2011, ha causato 260 mila morti, in maggioranza bambini.
In un mondo globalizzato pensare di mettere sotto vetro questo magma è ben peggio di un’illusione sovranista: è demenza politica. Ma la vera risposta sta in Africa, non nel Mediterraneo. Tutti lo sanno, ma è difficile e rischioso dirlo chiaramente. Comincia a dirlo Macron. Lo ha detto al nostro Federico Fubini il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. La soluzione è internazionale e può richiedere anche un impegno militare: quando pensiamo a campi Onu in Libia, è difficile prescindere da una forza di deterrenza che li protegga. Sono l’Europa e più ancora le Nazioni Unite a dover rispondere presto (davvero presto) alla grande questione umanitaria aperta dalla detenzione dei migranti: addebitarla a Minniti, come fanno la sinistra radicale ed esponenti anche illustri del mondo del volontariato, sembra davvero un errore di bersaglio.
A lungo termine, tuttavia, anche i campi Onu andranno superati. L’ultima illusione sarebbe recintarvi un continente in fuga. Toccherà all’Europa, quando e se avrà un orizzonte geopolitico e un esercito comuni, riportare in Africa maestri e ingegneri, medici e soldati. Collaborando con quei pochi Paesi africani dove un’entità statuale esiste davvero e smettendo di buttare soldi nelle tasche di qualche tirannello (l’ultimo della serie, Issoufou in Niger) perché ci faccia da buttafuori vessando la propria gente. Il percorso sconfina nell’utopia. Ma la storia sa sorprenderci, talvolta: era utopia, cent’anni fa, anche l’idea che Germania e Francia smettessero ciclicamente di spararsi addosso. Serve visione, un nation rebuilding che insegni il futuro a milioni di giovani africani. Dopo il colonialismo, una decolonizzazione vile e piena di sensi di colpa e il feroce neocolonialismo economico delle multinazionali, forse il XXI secolo dovrebbe inventarsi il «colonialismo solidale». Non per bontà, ci mancherebbe. Ma perché aiutando loro, aiuteremmo parecchio noi stessi.