Total vuole subentrare alle società americane nell’area. E gli Stati Uniti puntano a portare in Europa il loro gas
Le compagnie petrolifere americane vorrebbero abbandonare la Libia, lasciando spazio, tra l’altro, ai francesi di Total. Al Corriere risulta che nel vertice di lunedì 30 luglio, il premier Giuseppe Conte abbia chiesto a Donald Trump di convincere la società Usa a rimanere nel Paese nordafricano. Petrolio, affari, equilibri geo economici e geo politici. L’incontro alla Casa Bianca si è concluso con una formula diplomatica importante per l’Italia, riconosciuta dagli Stati Uniti come “Il punto di riferimento per la stabilizzazione della Libia e nel Mediterraneo allargato”. Per ora sono ancora vaghi i contenuti della “cabina di regia”, la cooperazione più stretta, varata dal governo Conte e dall’amministrazione Trump. Comincia a chiarirsi, invece, almeno una parte della sostanza economica dell’intesa. La principale risorsa che tiene in piedi il governo di Tripoli, il solo riconosciuto a livello internazionale, è il petrolio. Il premier Fayez Serraj fatica a contenere le mire sui giacimenti del generale Khalifa Haftar, il boss di Bengasi e della Cirenaica, seguito con una certa simpatia dal presidente francese Emmanuel Macron, Dal punto di vista di Tripoli è fondamentale che non ci siano cambiamenti nella gestione del greggio. Ma la Total, spalleggiata da Macron, vuole crescere in un Paese ricco di riserve e dove ha un ruolo marginale: produce solo 31 mila barili di petrolio al giorno contro i 384 mila di Eni, la società straniera dominante. Tra gli obiettivi di Total c’è il consorzio Waha, a sudest di Sirte: una riserva cospicua, da circa 600 mila barili al giorno.Al comando dell’azionariato figura la National Oil Corp, la società statale libica, con una quota del 59,18%. Il resto del capitale è suddiviso tra tre imprese americane: Marathon Oil (16,33%); Conoco Phillips (16,33%) e Hess (8,16%). Le multinazionali statunitensi sono tornate da quattordici anni in Libia, dopo che nel 2004 George W.Bush revocò le sanzioni e i divieti di investimento imposti da Ronald Reagan nel 1986.Lo scorso marzo, però, Marathon Oil ha venduto il suo pacchetto di titoli nella Waha, proprio a Total: un affare da 450 mila di dollari. A Tripoli non hanno avuto dubbi: era il segnale che non solo Marathon, ma anche le altre società statunitensi se ne sarebbero andate, lasciando spazio ai francesi, gli interlocutori privilegiati del generale Haftar. Politica ed economia si intrecciano: ad aprile Serraj blocca l’operazione. Ma le ambizioni dei francesi restano vive. Macron convoca le fazioni a Parigi per concordare un percorso che porti alle elezioni il prossimo 10 dicembre. Total preme per subentrare a Marathon.E siamo a oggi. A Roma, il governo Conte si preoccupa per l’attivismo di Macron e per l’intraprendenza di Total, i concorrenti di Eni.Il dossier a doppia lettura (politica ed economica) finisce sul tavolo del confronto con Trump. Il presidente avrebbe garantito il suo intervento per spingere Marathon e le altre a restare in Libia. Si vedrà. Intanto il leader della Casa Bianca ha subito rilanciato con un grande piano per vendere lo shale gas, costruendo in Europa tra i 9 e gli 11 porti, completi di rigassificatori. Per il momento non sono filtrati altri dettagli, se non che Trump chiede ai Paesi europei di coprire gli investimenti. Ma non sarà semplice coinvolgere i partner Ue: le comunità locali rifiutano un po’ ovunque gli impianti di rigassificazione. Inoltre l’impegno di spesa è consistente: almeno 60-70 miliardi di dollari a istallazione. Senza contare che lo “shale gas” americano costa circa il 20% in più rispetto al prezzo medio sul mercato internazionale.