L’analista Ispi, Arturo Varvelli: “I miliziani vanno trasformati da militari a politici. L’Occidente parli con tutti”
Arturo Varvelli, corresponsabile dell’Osservatorio sul Mediterraneo e Medio Oriente dell’Ispi, considerato uno dei massimi esperti di Libia, legge in controluce gli scontri di Tripoli, le mosse dei ribelli, la paura e la preoccupazione del mondo che trema davanti a un Paese sul punto di scoppiare, gli interessi dell’Europa in bilico, i flussi migratori come una spada di Damocle che ci pende addosso. «E purtroppo non è niente di inaspettato».
«La Libia è un Paese tribale, e questo deve essere il punto di partenza per ogni discussione, altrimenti non si capisce la spinta delle forze che si muovono. Ma c’è un però, una sorta di evoluzione moderna delle tribù».
In che senso?
«Durante il conflitto con Gheddafi è cambiato tutto. Nelle città le tribù si sono imbastardite per così dire. Si sono cioè alleate con le milizie armate. Sono nate unioni non più su base familiare, ma tra vicini. Mettersi nella squadra di chi aveva le armi era più importante del legame di sangue. E questo ovviamente ha cambiato tutti gli assetti. Al Sud invece è diverso, lì le tribù sono ancora forti e contano, perché c’è ancora molto localismo».
Quindi sono più forti le milizie delle tribù?
«Esattamente. A Tripoli ad esempio le tribù contano ma sono più forti le milizie sorte nel 2011, durante il conflitto per la spartizione del potere. A Misurata resta un orientamento basato sulla tribù».
Quante sono le tribù che contano davvero?
«Su centotrenta quelle davvero decisive sono trenta e rappresentano più un elemento sociale che politico».
Da cosa è nata quest’ultima crisi?
«A scatenare la crisi questa volta è stata la Settima Brigata che si sente esclusa. Ma di fatto il meccanismo è sempre lo stesso: manca il monopolio dell’uso della forza. Ovviamente le parti lottano. Un gioco di potere tra loro. Le milizia che si sente esclusa vuole ridistribuire il dominio. Poi, a peggiorare il tutto, ci sono forze esterne che fomentano, le potenze straniere, arabe ed europee e ognuna ha la sua tribù protetta».
C’è un elemento religioso in questa lotta?
«No. È puro gioco di potere. Un gioco a somma zero. Come nella saga in The Game of Thrones, la battaglia all’ultimo sangue per il comando. Non ci sono motivi di fede religiosa ma solo di dominio. Chi controlla il petrolio, chi le banche. È una guerra su tutti i fronti, dove tutto si mescola di continuo».
Quale l’errore principale dell’Europa?
«Ostinarsi a parlare ognuno con la propria tribù. L’Italia che sostiene una fazione opposta rispetto a quella sostenuta dalla Francia. Non solo non si trova una politica comune, ma addirittura alimenta la crisi interna. Così è evidente che non funzionerà mai. È come se l’Occidente si ostinasse a non vedere: il Paese è come una torta divisa a fette. È gravissimo non aver capito che coinvolgere le milizie è l’unica via d’uscita. Manca la visione d’insieme. Unire a un unico tavolo le tribù, scendere a un compromesso con le milizie. Ascoltare le varie voci. E considerare un fatto determinante: che ormai non si fidano del proprio vicino. Bisogna disinnescare questo meccanismo».
Le elezioni del 10 dicembre auspicate dalla Francia possono essere una soluzione?
«Non credo. Anzi, penso che possa essere una prova che il Paese non solo non riuscirebbe a sostenere ma che sarebbe solo dannosa. Occorre prima risolvere il problema alla radice altrimenti un leader non riconosciuto dalle parti non avrebbe nessun senso se non quello di acuire le tensioni».
Che fare dunque?
«Trasformare le milizie da attori militari ad attori politici. Come è successo in Kosovo. I militari sono diventati politici. Un percorso complesso certo, ma l’unica via che vedo praticabile e possibile».