La libia non è pronta a tenere elezioni il 10 dicembre come fissato nell’accordo (informale) tra il premier libico Fayez Serraj e l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, al cospetto del presidente francese Emmanuel Macron. Vi sono già difficoltà, a prima vista insormontabili. anche solo per organizzare il referendum popolare che dovrebbe decidere se approvare o meno la bozza di Costituzione approvata dal parlamento nel luglio del 2017. La decisione di procedere a elezioni è figlia dal fallimento del piano d’azione presentato dall’inviato delle Nazioni Unite Ghassan Salamé, nel settembre del 2017. Questo piano rappresentava un primo passo verso la modifica del Patto nazionale libico, firmato con l’Onu a Skhirat nel 2015. Il patto prevedeva un Consiglio di Presidenza più ristretto e un governo di unità nazionale, al fine di riportare un minimo di sicurezza nel Paese e far partire casi un programma di sviluppo economico. Fallito questo primo passo, a molti è sembrato opportuno andare direttamente a elezioni. A tale decisione si sono opposti però coloro che considerano lo status quo vantaggioso e che quindi preferiscono non procedere con il programma elettorale.        Contrari anche coloro che, come l’Italia, hanno compreso bene che le elezioni in questo clima politico di insicurezza totale possono definitivamente trascinare il Paese nel caos e nella guerra civile. l recenti sanguinosi scontri a Tripoli tra milizie che in teoria dovrebbero dipendere tutte dallo stesso governo, quello di Serrai, lo dimostrano in modo incontrovertibile. Dal 27 agosto, a causa dell’offensiva della sentima Brigata (una milizia che ha base a Tarhuna, città situata a una cinquantina di chilometri a sud di Tripoli).la situazione nella capitale libica è precipitata. Molte le vittime civili, mentre non è ancora definito il numero delle vittime fra i miliziani delle varie azioni. Ma perché l’offensiva e perché proprio adesso? Le motivazioni dell’attacco della milizia di Tarhuna, guidata dai fratelli Kanj, si colloca nell’ambito dello scontro per le risorse economiche della Libia. I fratelli Kani si sono sentiti tagliati fuori dalla spartizione delle risorse economiche in corso a Tripoli, dove i vari capi milizia e i loro associati politici ed economici, grazie a un pervasivo sistema di corruzione stavano facendo man bassa. La reazione delle milizie tripoline è stata lenta e poco coordinata. All’inizio di settembre, grazie ai rinforzi inviati da Misurata, sembrano aver tamponato l’offensiva di Tarhuna. Resta il fatto che la reazione della comunità internazionale è stata poco tempestiva e molto debole, limitandosi a uno scarno e·generico comunicato di sostegno al premier Serraj. Può darsi che tutto si concluda con un semplice rimescolamento delle forze in campo e delle zone controllate dalle varie milizie. Ma non si possono escludere conseguenze più radicali, come la caduta in mano dei tarhunesi di gran parte della città. l’espulsione delle milizie tripoline a loro contrapposte e la caduta di Serraj e del suo governo. Non     è chiaro se dietro la Settima Brigata e la       sua offensiva vi sia Haftar, come molti sospettano. C’è persino chi si spinge a denunciare la presenza francese, legata soprattutto agli equipaggiamenti militari della Settima Brigata.