L’incontro due giorni fa tra Enzo Moavero Milanesi e Khalifa Haftar a Bengasi è letto da molti come un riposizionamento del nuovo governo a Roma. Meno sostegno per lei premier Sarraj e molto più per Haftar. Concorda?
«Solo un minuto fa ho concluso una lunga conversazione telefonica con Moavero. Mi ha raccontato nel dettaglio del colloquio con Haftar. Siamo stati concordi nel ribadire che dobbiamo lavorare uniti, ma nulla vieta questi incontri bilaterali. Con Haftar siamo fermi ai risultati raggiunti alla conferenza di Parigi a fine maggio. E su quella base occorre preparare la conferenza prevista in Italia a novembre. Ma va pensata bene: inutile incontrarsi senza risultati, sarebbe controproducente. E occorre che la comunità internazionale si organizzi. Francia e Italia devono risolvere le loro dispute bilaterali riguardo alla Libia. Qui la situazione è già gravissima, inutile gettare altra benzina sul fuoco».
Moavero l’ha rassicurata? E lei dove si colloca tra la posizione francese, che esige elezioni in Libia entro il 10 dicembre, e quella italiana, che vorrebbe più tempo per prepararle meglio?
«Delle elezioni si era parlato a Parigi. Ma occorre prima votare il documento costituzionale che è pronto, ma non approvato. Purtroppo il parlamento di Tobruk non lo ha ancora esaminato. Senza Costituzione come si può andare al voto nazionale? E comunque prima di votare occorre che il Paese sia sicuro. Non si può votare con l’instabilità nelle strade. Infine è necessario che tutti accettino il risultato delle urne. Servono regole condivise».
Come intende cementare il fragilissimo cessate il fuoco tra milizie negoziato dall’Onu?
«Occorre che, come ogni accordo, anche questa tregua vada rispettata da tutte le parti. Occorre stabilire un’autorità che controlli e denunci le eventuali violazioni. Da parte nostra abbiamo dispiegato il meglio delle nostre unità antiterrorismo. Ma bisogna che le Nazioni Unite e la comunità internazionale garantiscano che chiunque infrange i patti venga identificato e rapidamente sanzionato».
Ma apparentemente non funziona. La situazione resta tesissima. Solo due giorni fa un commando ha attaccato il quartier generale della Compagnia Petrolifera Nazionale a poche centinaia di metri dal suo ufficio. Il blitz è poi stato rivendicato da Isis. Che fare?
«È stato un attacco terroristico in cui vedo chiaramente il marchio dell’Isis e dei jihadisti. Li abbiamo vinti due anni fa a Sirte, ma sappiamo bene che hanno cellule segrete pronte a colpire anche a Tripoli. Si nascondono bene, sono difficili da battere. Lo sanno bene anche le polizie in Francia, Belgio, Egitto, Gran Bretagna, Arabia Saudita, che hanno lo stesso problema. In più i terroristi in Libia approfittano delle nostre gravi divisioni interne, mirano a destabilizzare il Paese e sfruttano le nostre debolezze. Voglio dire che le nostre forze di sicurezza hanno reagito con rapidità, ma serve di più. Dalle pagine del Corriere lancio un appello affinché la comunità internazionale ci ascolti e aiuti. Il nostro è un Paese cruciale, le bande criminali si arricchiscono con il traffico dei migranti e i contrabbandi illeciti. E ci sono alcuni Paesi vicini che sfruttano il nostro caos interno a loro beneficio. Da soli non possiamo farcela, necessitiamo del vostro aiuto».
Haftar ha dichiarato l’intenzione di ordinare alle sue unità militari di prendere Tripoli. Crede possa farlo?
«Vorrei ricordare a Haftar che i nostri accordi raggiunti a Parigi prevedono di lavorare assieme per obbiettivi comuni e contro le iniziative unilaterali. Ci siamo detti che si deve privilegiare il dialogo e che qualsiasi violazione di tali intese avrebbe rappresentato un danno per tutti. Ovvio che queste sue ultime dichiarazioni bellicose contraddicono lo spirito di Parigi. Come del resto è stata grave la sua scelta negli ultimi tempi di inviare truppe a occupare i terminali e i pozzi di gas e petrolio a est di Sirte. È un danno per la Libia intera. Un attacco militare alla capitale è da irresponsabili, spinge il Paese alla guerra civile. Tripoli è di tutti i libici, chiunque ha diritto di venirci e risiedervi, ma da libero e pacifico cittadino».
Haftar ha davvero il controllo della Settima Brigata di Tarhuna che sta accerchiandovi. E gli ex pro-Gheddafi sono con lui?
«Non ci sono del tutto chiare la composizione e l’identità dei miliziani di Tarhuna. Da loro non è mai arrivata una palese dichiarazione d’alleanza ad Haftar. E lo stesso possiamo dire di Saif al Islam Gheddafi e degli altri fedeli all’ex regime di suo padre: non c’è da parte loro alcuna presa di posizione pubblica. Occorre attendere per capire meglio cosa faranno».
A Tripoli gira insistente la voce di sue possibili dimissioni nel prossimo futuro. Ci sta riflettendo?
«Io con i miei collaboratori siamo costantemente oggetto di accuse, informazioni false e offese. Ci sono forze che le diffondono a bella posta per instillare nel pubblico un pernicioso senso di instabilità e precarietà. Dico invece con assoluta sicurezza che nessuno di noi pensa di fuggire di fronte alle difficoltà. Considero un mio dovere restare in Libia a compiere il mio lavoro».
La guerra tra milizie favorisce gli scafisti e le partenze dei migranti verso l’Italia?
«Noi abbiamo fatto del nostro meglio con le nostre motovedette e quelle donate dall’Italia. I nostri uomini si prodigano anche per controllare i punti di partenza dei barconi. Ma certamente ogni giorno di guerriglia in più aiuta gli scafisti e le attività criminali in tutto il Paese. La destabilizzazione è complice dei traffici di esseri umani».
Ma perché la Libia è ancora tanto in crisi a sette anni dalla caduta del regime di Gheddafi?
«Per il fatto che non sono state trovate soluzioni serie e di lungo periodo per risolvere le gravissime divisioni interne che sono politiche, economiche, investono i fondamentali della sicurezza nazionale. In Libia ora più che mai necessitiamo di un’unica autorità centrale riconosciuta da tutti. Ma ci sono anche potenze straniere che ci remano contro per i loro interessi. Sappiamo che alcune milizie vengono armate sottobanco dall’estero».
Può dirci chi sono queste potenze straniere?
«Loro lo sanno bene. E non vogliono la sovranità della Libia. Una Libia forte e indipendente può anche dare fastidio».