Il pericolo, mentre l’Italia organizza per novembre la «sua» maxi-conferenza sulla Libia, è che la consolidata inimicizia politica tra il vicepremier Salvini e il presidente Macron si estenda irresistibilmente a Tripoli e dintorni. Se ciò accadesse, non si tratterebbe soltanto di un riflesso della campagna per le elezioni europee di maggio, che vede Salvini tra i condottieri nazional-sovranisti e Macron aspirante leader dei loro più fermi oppositori. Si tratterebbe, piuttosto, di una manifestazione di irresponsabilità, di un tradimento degli interessi nazionali e del probabile abbandono della Libia ad un cupo destino di guerra civile. Con la conseguenza tra l’altro di nutrire ulteriormente i flussi migratori, proprio mentre su questo tema va crescendo l’isolamento europeo del governo gialloverde. Come far prevalere, allora, le ragioni del buonsenso e del pragmatismo, come far ragionare insieme Roma e Parigi, come partire da lì per disegnare una strategia vincente che in Libia nessuno sembra ancora avere? Il problema è che un programma tanto saggio e tanto rispondente agli interessi di entrambi esige che il primo passo, per i francesi come per noi italiani, sia quello di riconoscere i molti errori compiuti in Libia. Tanto da Roma quanto da Parigi. In passato e ancora oggi. Cominciamo dalla Francia, dalla guerra per abbattere Gheddafi nel 2011 che fu Nicolas Sarkozy a volere salvo poi disinteressarsi di una Libia ingovernabile a guerra finita.
Quell’impresa, cui anche l’Italia malvolentieri partecipò, servì sì ad eliminare un dittatore, ma fece anche emergere quanto egli fosse stato abile nel creare uno stabile equilibrio interno fatto di privilegi e di castighi, di carote e di bastoni: esattamente quel che manca oggi in Libia. Il presidente Macron ha condannato le scelte di Sarkozy, ma il 2011 non può non pesare sul piatto francese degli errori storici. Anche perché di sbagli ce ne sono stati e ce ne sono altri, che ci riguardano. È noto che la Francia ha in Libia interessi soprattutto energetici in competizione con i nostri, ed è perfettamente lecito che Parigi coltivi questi interessi, scelga i suoi alleati locali, abbia insomma quella strategia nazionale (in mancanza di una strategia europea) che a noi è talvolta mancata. Ma era davvero necessario convocare a Parigi una maxi-conferenza libica mentre l’Italia era ancora (per tre giorni) senza governo? E oggi, non è irragionevole l’insistenza di Macron sull’intesa allora raggiunta di tenere elezioni generali in Libia il 10 dicembre, mentre a Tripoli vige una fragile tregua dopo aspri combattimenti, mentre sono saltate le scadenze istituzionali previste dall’accordo (ultima quella del 16 settembre) , mentre a favore delle elezioni si pronuncia soltanto il generale Haftar e l’Onu non parla di date ma chiede «condizioni di sicurezza, legislative e politiche», condizioni che non ci sono?
E l’Italia, è messa forse meglio della Francia? No davvero, e a dimostrarlo basterebbe il fatto che una politica sbagliata di appiattimento sulle strategie dell’Onu ci ha portati, oggi, a sostenere con marcata partigianeria quel Fayez al-Sarraj che è sì riconosciuto dalla comunità internazionale, ma è anche la parte più debole e più disarmata in un Paese dove si spara molto e si parla poco. Certo, Sarraj ha il merito di stare a Tripoli, capitale della regione dove sono concentrati i nostri interessi energetici e non soltanto quelli. Ma quanto è accaduto di recente, quando la Settima Brigata e altre milizie hanno sferrato una offensiva contro le formazioni filo-Sarraj accusandole di non dividere equamente il bottino derivante dalla loro protezione, dovrebbe raccontarci la Libia meglio di ogni altro episodio. Ed è preoccupante che in Italia, in un clima strumentale oppure di perfetta incompetenza, siano subito partite accuse alla Francia di aver ordito lei un complotto contro Sarraj.
L’Italia, proprio perché ha deciso di prendere l’iniziativa, dovrebbe tenere conto di tre punti importanti. Primo, in Libia resta improbabile una vittoria militare se la milizia di Misurata (sin qui a noi vicina, e questo è stato un successo) non cambierà campo o si spaccherà. Secondo, non si può contare troppo sull’interesse alla pace dei libici. Oggi essi hanno piuttosto interesse alla difesa della frammentazione, alle lotte intestine ben remunerate, ai traffici di varia natura migranti compresi. La pace deve diventare un pacchetto attraente, e conveniente. Terzo, alte cariche statunitensi dovrebbero essere presenti alla «nostra» maxi-conferenza, ma la «cabina di regia» promessa da Trump a Conte è una illusione dialettica già sperimentata con Obama (ricordate il «ruolo dirigente»?). Gli Usa continueranno a intervenire, ma soltanto contro il tentativo di ricreare cellule dell’Isis. E noi alle belle formule dovremmo essere in grado di dare un seguito concreto.
Alla luce di un realismo sin qui troppo trascurato, la miriade di inviti partita da Roma per l’evento di novembre rischia di rivelarsi fatica sprecata. Proprio come accadde a Parigi in maggio. Le «parti» libiche, soprattutto quando sono numerose, non si impegnano più di tanto e appena tornate in patria riprendono le vecchie abitudini in assenza di prospettive sicure. Sono proprio queste prospettive sicure che vanno create, con un metodo diverso e progressivo: prima un chiarimento strategico tra Italia e Francia, che non può più aspettare anche perché nessuno dei due è in grado di far prevalere i propri interessi senza la collaborazione dell’altro. Poi il coinvolgimento permanente di potenze garanti come Usa e Russia, e dei «finanziatori esterni» della Cirenaica e della Tripolitania: l’Egitto e gli Emirati con Haftar, la Turchia e il Qatar con Serraj. Infine una proposta articolata (e ricca) da presentare ai libici, ai soliti due ma forse anche ad Ahmed Maitig, vicepresidente del Consiglio presidenziale ed esponente moderato di Misurata. L’adozione di questo metodo politico non garantirebbe il successo. Ma ci permetterebbe di dire che in Libia ci abbiamo provato, davvero e non soltanto con assemblee di grande effetto ma poco promettenti.