Sono indignate e scoraggiate le migliaia di famiglie di italiani espulsi da Gheddafi nel 1970 (dopo aver subìto la confisca di ogni loro avere), per l’ennesima ricostruzione unilaterale della loro storia, suggerita dalla mostra fotografica “L’occupazione italiana della Libia. Violenza e colonialismo”, in procinto di essere inaugurata alla Casa della Memoria e promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale.
Da decenni, contando solo sulla volontà e sui sacrifici dei suoi soci, l’AIRL Onlus si batte – senza negare le nefandezze del colonialismo -, per ristabilire la realtà nascosta dalla storiografia ufficiale riguardo al contributo che gli italiani hanno apportato allo sviluppo del Paese nordafricano (oltre che per un equo indennizzo delle proprietà sottratte dal dittatore libico, in tempo di pace, a inermi cittadini residenti all’estero e stimate, attualizzandole, a più di 3 miliardi di euro).
Ascoltare, in un’intervista su Radio Onda Rossa, il curatore della mostra Costantino Di Sante affermare la tesi delle “terre migliori rubate agli arabi” o quella di una società creata “con lo sguardo del colonizzatore”, volutamente tacendo della dura realtà quotidiana di migliaia di lavoratori italiani (l’aggettivo non è una parolaccia) costretti a dissodare il deserto, avvilisce e umilia chi lotta da anni contro una “damnatio memoriae” attraverso la quale seppellire sotto la sabbia sahariana l’esperienza e il contributo della comunità degli italiani di Libia, non funzionali evidentemente ad un racconto unilateralmente orientato.
Oggi che la Libia è al centro dell’agenda setting è ancor più fondamentale raccontare ai giovani una storia completa e non mutilata da ciò che non fa gioco, per chiarire al meglio il background dietro alla guerra civile post-Gheddafi, ai rapporti tra Italia, Libia, Francia e al complesso reticolato sovranazionale che le domina.
Stupisce, da parte del Comune di Roma e dei partecipanti all’iniziativa, il mancato coinvolgimento degli italiani di Libia, che avrebbe limato inesattezze quali quelle del curatore intervistato, quando afferma che “Gheddafi mandò via” (in realtà si prese terre, case, macchine, gioielli, contributi Inps, conti bancari e li espulse come oggi non si fa nemmeno col più violento dei jihadisti) “la maggior parte” (in realtà tutti) “di quegli italiani” (in realtà tanti eredi dei coloni, nati dopo il fascismo e tutelati dal trattato internazionale Onu del 1956). Oppure quando parla della divisione fascista operata tra “bianchi e neri” glissando (ignorando?) su come la Libia del dopoguerra fosse poi diventata la culla di una nazione multirazziale, multietnica e multireligiosa.