Finita la conferenza, rimane il caos libico. Nonostante le strette di mano, le ottimistiche dichiarazioni d’intenti, i sorrisi e le foto di gruppo dei partecipanti al summit nel capoluogo siciliano, saranno soltanto i fatti sul terreno in Libia e l’eventuale capacità di organizzare libere e democratiche elezioni «entro la primavera del 2019» a dirci se davvero l’iniziativa italiana sia stata di successo, oppure un’ennesima opportunità perduta. Non sarebbe certo la prima volta. Il fantasma del fallimento ha segnato infatti i summit simili negli ultimi anni, compreso quello di Parigi lo scorso 29 maggio, che aveva addirittura fissato la data per elezioni «entro il 10 dicembre 2018», vanificato dalle violenze di settembre a Tripoli. Uno degli indicatori più evidenti delle prossime difficoltà all’orizzonte è stata ieri la scelta della delegazione turca di disertare in tutta fretta Palermo. Il capo della rappresentanza, vicepresidente Fuat Okyat, è ripartito per Ankara alla testa dei suoi collaboratori infuriato contro la riunione tenuta in prima mattinata tra l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, il premier del governo di Tripoli, Fayez Sarraj, alla presenza di Italia, Russia, Egitto e gli altri Paesi della regione considerati più vicini al governo della Libia orientale. «In verità la Turchia di Erdogan è in lotta con l’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi per l’egemonia nel mondo arabo sunnita. Okyat si è risentito per non essere stato invitato e comunque non avrebbe mai condiviso la tavola con al Sisi. Ma si trattava di colloqui di lavoro al margine, come se ne tengono tanti in questo genere di incontri», spiegano alte fonti diplomatiche italiane. Tuttavia, lo scontro è più profondo. E’ dallo scoppio delle rivolte contro Gheddafi nel 2011 che i regimi relativamente laici del Medio Oriente cercano pesantemente di influenzare l’assetto della Libia a scapito del fronte islamico aiutato da Turchia, Qatar e l’universo articolato dei Fratelli Musulmani. «La Libia è un puzzle di tensioni da cui è difficile sfuggire. Italia e Francia lo sanno bene. Se aiuti Sarraj e i gruppi dell’universo islamico, che lo sostengono tra Misurata e la Tunisia, ti fai nemico Haftar. Se invece apri a quest’ultimo è allora il campo di Sarraj a farti la guerra», ci ha detto un diplomatico al seguito della delegazione turca. Ma i due fronti sono a loro volta frazionati. Ieri il ministro degli Esteri qatarino, Mohammd bin Abdulrahman, a differenza dei compagni di cordata turchi, è stato ben contento di restare a Palermo sino alla fine dei lavori. Questi ha però dato ampio risalto al suo incontro con il vice-premier della Tripolitania, l’uomo forte di Misurata Ahmed Meitig che da tempo manifesta il suo malcontento per le nuove aperture italiane nei confronti di Haftar. L’unica prova del nove sarà dunque la capacità di organizzare la «Conferenza Nazionale» tra gli attori della società civile libica architettata dall’inviato dell’Onu Ghassam Salamé. «Vorrei tenerla già in gennaio, con l’idea di avere elezioni nazionali prima della fine della primavera», ribadisce Salamé al Corriere. I suoi toni sono cautamente ottimisti. «Nonostante i gravi incidenti di settembre, che hanno causato oltre 120 morti in Tripoli, la media mensile delle vittime in Libia è di tre o quattro. Molto meno grave che in Siria, Iraq o Afghanistan». Sui tempi, però, resta cauto. «Ci vorranno anni prima di smantellare le milizie e porre fine alle lotte tribali».
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