Abbiamo ucciso Gheddafi, ma dal suo cadavere sembrano rinati tanti piccoli dittatori, i capi milizia». Al-Mahdi Saleh Hmeed è un avvocato, vive alla periferia di Tripoli, mi accoglie nel suo salone un venerdì, dopo la preghiera. Indossa la gialabia del giorno di festa, intorno il rumore dei bambini che giocano nel cortile, il tè è nei bicchieri. Arrivo a casa sua con Husen, che cambia strada di continuo, verificando che nessuno ci segua, non abbiamo i permessi per spostarci dall’hotel. Oggi in Libia, se sei un giornalista, hai bisogno di permessi per fare qualsiasi cosa. «Sembra di essere tornati ai tempi del Fratello Guida, volevamo una stampa libera allora, e non l’abbiamo nemmeno oggi», dice al Mahdi. «Tutti quelli che si ribellavano a Gheddafi sono passati da questa casa, hanno mangiato qui dentro, hanno scritto, pensato, preparato striscioni: “Vogliamo democrazia, vogliamo giustizia, dove sono i nostri cari?”. Le nostre parole d’ordine. Questo era il salone dei contestatori». Tra i contestatori anche lo scrittore Jamal al-Haji, imprigionato per aver parlato al sito web libico al-Mostakbal criticando le autorità di Gheddafi. Il 17 febbraio del 2007 al Mahdi avrebbe dovuto scendere in piazza, a Tripoli, per commemorare il primo anniversario dell’uccisione da parte dei soldati del rais di dodici persone durante una dimostrazione pacifica, a Bengasi. Però, il giorno prima della manifestazione programmata, gli agenti della sicurezza di Gheddafi hanno fatto irruzione in casa di Al-Mahdi – nel salone dei contestatori – arrestando lui e tutti gli uomini della sua famiglia. Lo stesso giorno la casa è stata data alle fiamme da un gruppo di giovani, presumibilmente collusi con le forze di sicurezza. Al Mahdi e gli altri dodici arrestati sono stati accusati di possesso d’armi, attività sovversiva, comunicazione con poteri nemici. E trasferiti nella prigione di al-Jadida. Al-Mehdi venne condannato a quindici anni di carcere. «Ho riverniciato questa stanza con le mie mani, questo è il luogo della casa che mi è più caro, è la stanza del pensiero, della critica. Qui dentro gli uomini di Gheddafi. hanno preso tutti noi. Hanno circondato la casa quella notte, non c’era modo di fuggire. Sono entrati, saranno stati quaranta, hanno rotto le gambe a mio fratello e portato via tutti». Nella seconda metà degli anni Duemila Saif al Islam, uno dei figli di Gheddafi, tentava di sedare le proteste con promesse di riforme. O tentando di corrompere chi fosse contrario al regime. È stato proprio Saif a convocare al Mahdi prima della manifestazione. «Mi offrì un milione di dinari, un ufficio e un autista, purché smettessi di riunire intorno a me i contestatori. Dissi di no, risposero: Vi faremo tacere con le buone o con le cattive. E poi l’arresto». Un anno dopo la cattura, e dopo alcuni mesi di isolamento, Al-Madhi grazie alla campagna internazionale delle organizzazioni in difesa dei diritti umani venne scarcerato. Oggi ha fondato una sua organizzazione in difesa della libertà di stampa e del rispetto dei diritti civili. Lavorare nel paese per lui è un pericolo quotidiano. Mi guarda rassegnato, l’entusiasmo dei racconti della contestazione svanisce, abbassa lo sguardo e inaspettatamente dice: «La rivoluzione è stata un errore». «Nel 2011 abbiamo chiesto che la nostra vita migliorasse, chiedevamo sviluppo, cultura. Invece le milizie hanno rubato le speranze della rivoluzione. Siamo un paese benedetto, camminiamo sul gas e sul petrolio ma questo ci ha reso ostaggi dei nemici interni e degli interessi esteri, è per questo che con le lacrime agli occhi penso che la rivoluzione sia stata un errore. Quando manifestavo e riunivo persone qui, in questo salone, chiedevo di cambiare il regime, chiedevo riforme. Non volevo l’assassinio di un dittatore, chiedevamo riforme graduali, non chiedevamo vendette di sangue. Dove ci ha portato quel sangue? Qui. A scontare un inferno quotidiano. Dovevamo chiederci se fossimo pronti per avere libertà e a quel prezzo, e non lo eravamo». Suo fratello, che con lui ha condiviso la contestazione e l’isolamento della prigione, lo ascolta e solo alla fine, perentorio, dice: «Dal 17 febbraio 2011, dalla rivoluzione, sono uscite persone senza valore, Kara, Tajouri, Haarati, questi capi milizia sono piccoli uomini. Noi chiedevamo un paese che potesse leggere, studiare, migliorare, criticare e pensare dopo quarantadue anni di regime, oggi invece le brigate bruciano ancora i libri, le riviste, i fumetti. Con la differenza che sono pagati dal governo che l’Europa riconosce». La Libia è un paese di cinque milioni e mezzo di persone e venti milioni di armi, «non c’è casa che non ne abbia una», dicono tutti, chi esprimendo preoccupazione, chi invece compiacimento. Armi pronte a essere usate alla prima chiamata, per fare pressione sul governo, per spartirsi i quartieri con le milizie rivali, per raccogliere credito tra i più giovani, e affiliarli. Oppure per ritorsione, come sta accadendo dall’inizio di ottobre. La guerra di settembre a sud della città, sulla strada dell’ex aeroporto internazionale, ha provocato quasi duecento morti e trecento feriti, oggi camminando per Qassim Bin Gashir, quartiere alla periferia sud, si vedono chiaramente i segni dei colpi di mortaio sulle scuole, le moschee, le abitazioni civili. La Settima Brigata di Tarhouna ha marciato su Tripoli chiedendo che le milizie che controllano la capitale fossero disciolte. “Basta abusi, basta privilegi” le parole d’ordine. Fayez al-Sarraj, dopo settimane di combattimenti, con l’aiuto dell’inviato speciale dell’Onu Gassam Salamè ha raggiunto un cessate il fuoco e approvato una serie di riforme: una riforma economica per abbassare il prezzo della valuta estera (il cambio tuttavia è ancora 1 a 6 al mercato nero, mentre quello ufficiale è 1 a 1,3), una riforma delle forze di sicurezza, che comprende il ritiro delle milizie e il dispiegamento di forze di polizia regolari a Tripoli, sciogliendo due milizie, la Ghwani e la Nawasi, e ha sostituito quattro ministri, tra cui il ministro chiave, quello dell’Interno, responsabile dunque delle forze di sicurezza, affidando il ruolo a un misuratino, per bilanciare le appartenenze tribali e territoriali nel governo. Ma le riforme si stanno dimostrando fragili, e osservare la capitale in questi giorni, nei giorni della Conferenza di Palermo, è il negativo delle foto patinate e delle strette di mano. La Libia delle istantanee, dei sorrisi a favore di telecamera, e della fiducia nella road map verso le elezioni, la primavera prossima, è lontanissima dalle code chilometriche di fronte alle banche. La riforma economica di Sarraj stenta a decollare, perché le brigate hanno le mani su ogni filiale bancaria, e se ieri faceva comodo taglieggiare i cittadini per ottenere mazzette a ogni prelievo di contante, oggi è necessario ripulire l’immagine delle brigate, farle sembrare meno predatorie, ritornare ai fasti post rivoluzionari, quando le milizie erano sinonimo di sicurezza. Per questo otto banche del centro di Tripoli, nelle strade limitrofe a Piazza dei Martiri, distribuiscono denaro giorno, e notte, con i capi milizia a benedire un’inedita ondata di benessere e i cittadini a dimostrare riconoscenza. Che significa soldi ma anche supporto politico. E di fronte alle banche decine di ragazzini armati, sui 4×4 delle Brigate Rivoluzionarie di Haitem Tajouri, la milizia più potente della città che conta 1500 persone, grandi adesivi con scritto: We will not surrender, we win or die. Non ci arrenderemo, vita o morte. La riforma delle forze di sicurezza è, invece, un’operazione cosmetica. Gli uomini della brigata Nawasi e della Ghwenia hanno abbandonato le loro uniformi e indossato quelle ufficiali del ministero dell’Interno. Cambiano casacca, ma non gli obiettivi. Dalla prima settimana di ottobre, da quando il governo ha cominciato a emanare le prime riforme, Tripoli è scenario di assassini mirati, Mohammed al-Bakbak e Khairi Al-Hankoura, due figure di riferimento della milizia Tajouri sono stati assassinati: omicidi mirati, esecuzioni. Al Hankoura è stato freddato di fronte al lussuoso albergo Radisson Blu, di fatto quartier generale del Consiglio di Stato. Il giorno dopo per ritorsione sono stati uccisi due membri della milizia salafita Rada e i corpi gettati di fronte all’ospedale centrale di Tripoli. Il primo ministro Serraj non ha rilasciato commenti o dichiarazioni su queste esecuzioni, sebbene formalmente dipendano dal suo governo. È consuetudine che resti, almeno pubblicamente, spettatore passivo quando le milizie si scontrano. Anche se è stato lui a trasformarle in forze di polizia. Taha Shakshouki, membro del Comitato di Crisi della città, un gruppo autofinanziato e autorganizzato di cittadini, osserva la base marina e il porto dei pescatori da un bar lungo la strada costiera. «Ho studiato ingegneria a Montreal e poi in Irlanda, ero uno dei fortunati a cui Gheddafi. concesse di studiare per un po’ all’estero. Per sua sfortuna a Montreal più che l’ingegneria mi interessava la psicologia, ho frequentato di nascosto un corso sugli effetti dei media nell’opinione pubblica, imparai lì cosa signi.ca manipolazione. Soprattutto realizzai di essere stato manipolato, e quanto fosse necessario liberarmi di quella gabbia. Anche io ero in piazza nel 2011. Oggi, una volta la settimana, il lunedì sera per due ore conduco una trasmissione in radio. Possiamo criticare sai? Il governo, le Nazioni Unite, Haftar. Ci sono solo due cose di cui è meglio non parlare. Le milizie e i barbuti». Ti senti libero Taha? Gli chiedo. E lui prima di rispondere si guarda intorno, come tutti, quando ascoltano domande delicate, e sembra un automatismo, il retaggio del regime: «Cerco di essere felice e proteggere la mia famiglia», risponde, «la libertà è una cosa a cui ho smesso di pensare da un po’». Reporters Sans Frontières ha registrato, con difficoltà, casi di sparizioni, rapimenti e torture di giornalisti nel paese. Dal 2014 in Libia sono stati uccisi 20 giornalisti, 67 sono fuggiti e otto media libici stanno operando da altri paesi in Medio Oriente. Annabaa Tv ha interrotto le trasmissioni il 15 marzo 2017 dopo che la sua sede, in un sobborgo della capitale, è stata incendiata dalla milizia salafita Rada, che ha ottenuto l’elenco degli impiegati del canale e l’ha reso pubblico, innescando un’ondata di odio e minacce nei loro confronti. Il canale ha trasferito la sua base in Turchia. Il 7 maggio scorso il governo Sarraj ha presentato un decreto, il n.555, che ha formalmente sciolto la milizia salafita Rada, iscrivendola in una nuova “unità anti-crimine e anti-terrorismo”. Nel decreto si legge: l’unità avrà lo stesso nome della milizia. Di nuovo, cosmesi governativa. Le milizie che danno alle fiamme le sedi delle televisioni sono dunque, di fatto, riconosciute e pagate dal ministero dell’Interno del Governo Sarraj. Tra i poteri nelle mani dei potenti salafiti per decreto governativo, c’è anche la possibilità di usare tutte le risorse necessarie per tutelare la sicurezza nazionale, tra cui controllo di computer e telefoni. Significa che i miliziani potrebbero per legge controllare e spiare telefoni, computer e attrezzature, di chiunque sia sospettato di rappresentare un pericolo. Giornalisti compresi. Locali e internazionali. La scorsa primavera Suleiman Qashout e Ahmed Yaacoubi, organizzatori del Premio Septimus per giornalisti e artisti libici sono stati arrestati da Rada e tenuti nel carcere dell’aeroporto di Mitiga per due mesi. Il mese scorso l’Ufficio Media ha revocato l’accreditamento dei pochi corrispondenti di media stranieri da Tripoli: stiamo cambiando le procedure, hanno spiegato, il governo non può più consentire ai giornalisti di lavorare da soli, hanno spiegato. La settimana scorsa un gruppo di uomini armati ha rapito quattro giornalisti, due dello sta_ locale di Reuters e due di Afp, colpevoli di aver tentato di raccontare, senza i permessi necessari, le storie dei migranti detenuti nella base di Abu Sitta. Dall’insediamento di Sarraj, nel 2016, lavorare come giornalisti in Libia è diventato sempre più difficile. A cominciare dall’accesso ai visti, che può durare mesi ed è completamente arbitrario. Ottenere il permesso di entrare nel paese è un processo lento, laborioso, ma soprattutto imprevedibile. Le regole cambiano in continuazione, così come i referenti. Il consolato si rivolge al Foreign Media Department che si rivolge ad un sedicente Ufficio Affari Esteri (che è di fatto l’intelligence dedicata ai giornalisti stranieri) con cui non è possibile comunicare, questo ufficio a sua volta effettua una verifica sul curriculum dei giornalisti e trasmette il benestare o il rigetto della domanda al Ministero degli Esteri del governo Sarraj. Ottenere risposte è difficile, ottenere documenti è impossibile. Raccontare la Libia attraverso le immagini è una scommessa, il terrore della telecamera lo ereditiamo da Gheddafi, le cose si sanno ma non si devono vedere, le cose si sanno ma si deve tacere, dice la gente in città. E allora la Libia da raccontare è proprio quella che non si vede, è il sospetto che si respira camminando, la paura delle persone, tutte, di essere ascoltate, spiate, controllate ma soprattutto punite. Ogni intervista, incontro, visita, spostamento, richiede una lettera, un colloquio, un permesso, le responsabilità si rimpallano e su temi speci.ci i permessi non arrivano mai: le visite ai centri di detenzione per migranti, per esempio. Il potere predatorio delle milizie. Servono permessi per parlare con le persone in strada, nei caffè. Bisogna passare ufficialmente dall’Ufficio media e naturalmente anche ufficiosamente dal capo milizia, anche solo per fare una domanda a un uomo seduto di fronte a una tazza di caffè. In pieno centro, nella capitale. A due passi dalla Marina libica, dall’ambasciata italiana e dalla sede del governo Sarraj, appoggiato dalle Nazioni Unite. Oggi, lavorare in Libia significa sapere di avere due possibilità, o mettersi a disposizione dell’Ufficio media, dei loro tour organizzati, con uomini scelti da loro come guide, autisti e traduttori e accettare la costante presenza di un uomo dell’intelligence che veri.ca ciò che fai, come lo fai ma soprattutto quello che la gente ti dice, oppure cercare un’altra strada, camminando in punta di piedi e a telecamera spenta, tra i divieti imposti dall’Ufficio Media, e ascoltare ogni sussurro, entrare nelle case delle persone badando di non essere seguito, mentire per spostarsi da una città all’altra. Perché neppure questo è consentito, oggi, a un giornalista in Libia. Muoversi da una città a un’altra, senza un permesso scritto e un uomo dell’intelligence al seguito. Firmando le lettere di incarico per la permanenza nel Paese di un gruppo di giornalisti, il responsabile del dipartimento stranieri, ha detto: «Siamo tutti verdi dentro questo ufficio, sappiamo come trattare i giornalisti. Sono tutte spie, non avranno pace». Siamo tutti verdi, siamo tutti ghedda.ani. C’è un vecchio detto in Libia. Dice che se hai una borsa di topi e vuoi impedire ai roditori di scappare devi continuare a scuotere la borsa. Gheddafi faceva così, se qualcuno prendeva un po’ di potere o guadagnava un po’ di libertà cambiava posto alle pedine e mescolava il potere, che in questo modo è durato 42 anni. «Anche oggi ci sentiamo così, ci sentiamo tutti topi chiusi in una busta, fai un passo avanti e venti indietro. Parli un po’ e poi taci per mesi». La Libia è classificata 163ma su 180 paesi nel World Freedom Index 2017 di Reporters Sans Frontières, con un governo sostenuto dalle Nazioni Unite, che consideriamo interlocutore e che però tace di fronte agli abusi e alle intimidazioni contro i giornalisti. E al timore diffuso dei cittadini. Alla paura di essere puniti, alla paura di pensare.