Nelle ultime settimane sono sempre stato in giro per le riprese di un nuovo programma che andrà in onda tra pochi giorni. Non ho avuto quindi la possibilità di tenermi aggiornato sui fatti più salienti della politica di casa nostra né tantomeno di andare a scovare qualche scomoda verità nascosta nell’intricato scenario dei fattacci internazionali. Fortunatamente, per compensare questo mio momento di grave buio informativo, i miei cari amici della vera sinistra italiana mi hanno preso da parte e mi hanno raccontato un fatto gravissimo, una cosa che mi ha lasciato talmente sconvolto da spingermi a condividerla con voi. A quanto mi dicono, la situazione in Libia si è fatta terribile: il paese è diventato un mattatoio a cielo aperto in cui i più basilari diritti umani vengono calpestati senza pietà. Basterebbe questo a togliermi il sonno, ma purtroppo c’è dell’altro e questa non è che la punta di un iceberg di orrore e sofferenze. La cosa più sconvolgente, mi hanno spiegato i miei cari amici attraverso i loro ficcanti interventi su Facebook, è che questa devastazione non ha radici molto lontane nel tempo né ragioni legate alla storia libica. Infatti, a sentir quello che scrivono sui loro profili Twitter, la Libia è sempre stata una culla di civiltà e accoglienza, un paradiso multiculturale che per decenni ha esportato – ben oltre i confini del bacino mediterraneo – i semi della tolleranza e della gender-blindness. C’era una volta, mi hanno spiegato, una Libia dove gli alberi di gelso erano perennemente carichi di frutti e nei fiumi scorreva il latte misto al miele. Un’Arcadia nordafricana progressista in cui i pastorelli berberi, sdraiati all’ombra di agrumeti in fiore, sfogliavano libri di Judith Butler e Susan Stryker, tra una seduta di autocoscienza e l’altra, giocavano a chi aveva il curriculum universitario più lungo. Era un paese dove le giovani donne Zaghawa desiderose di effettuare la transizione FtM potevano contare su avanzatissimi centri per la Top Surgery progettati secondo criteri di bioedilizia a impatto zero; dove lungo la costa – come negli angoli più caratteristici dell’entroterra – si alternavano gli Aman Resorts ai Forte Village, strutture aperte in cui anche il più umile dei migranti in fuga dall’Africa subsahariana era accolto a braccia aperte e poteva degustare vini biodinamici tra un massaggio con pietre calde e una seduta di cristalloterapia; un paradiso in cui i bambini di tutto il continente africano potevano studiare in comunità steineriane, dove imparavano a preparare marmellate di aloe vera e – in vista dello spettacolino di fine anno – si esercitavano in un ambiente rigorosamente non competitivo nel riprodurre sotto forma di tableau vivant la parabola politica e umana di Harvey Milk. E poi, quando si faceva sera, tutti i libici e i loro fratelli profughi posavano i loro saggi sullo xenofemminismo e si riversavano in locali come Il Dattero Rosa, leggendario locale gay di Bengasi, punto di riferimento per la nutrita scena Tuareg del vogueing, dove tra una duckwalk e un po’ di floorwork, i danzatori si scambiavano consigli su dove reperire i migliori cosmetici cruelty free. Ma un giorno, purtroppo, un’ombra si è allungata su questa oasi nel deserto. Era il 12 dicembre del 2016, proprio il giorno in cui, come mi hanno ricordato i miei cari amici della sinistra italiana, a Roma si era appena insediato il governo dello spietato plutocrate Gentiloni. Quel lunedì, una nuvola nera cominciò ad avanzare minacciosa verso Al Bayda e, in breve, le coste della Cirenaica sprofondarono nel buio. I libici, insieme ai migranti che avevano fraternamente accolto, scesero in strada. Grandi e piccini alzarono gli occhi al cielo e, di colpo, chiunque comprese quel che stava accadendo. “E’ finita”, disse Abdulaziz, un professore di Storia della politica identitaria che si identificava come rugbista neozelandese. “Questa è opera del Viminale”. Al sentire queste parole, la folla fu scossa da un brivido. Un brivido che divenne terrore quando, dagli altoparlanti agli angoli delle strade (che di solito trasmettevano in loop una ricca selezione di podcast antispecisti), partì un sibilo assordante, seguito da una forte scarica elettrostatica. Nel silenzio sospeso della gente atterrita, risuonarono queste parole. “Vi parlo dall’Italia”, disse una voce dal tono orrendamente fascista. “La pacchia è finita, cari migranti. Da oggi in poi, per voi si chiudono i cancelli dei resort e si aprono le porte dei lager. Parola di Marco Minniti!”.Da quel giorno, da quel fatidico 12 dicembre 2016, come mi ricordano ogni istante i miei amici con i loro illuminanti post su Facebook, il neoministro dell’Interno ha ridotto la Libia – che fino a quel momento era un Eden riformista – alla prigione medievale che è diventata oggi, cancellando con un colpo di manganello la lunga tradizione libica di accoglienza e solidarietà panafricana. Nel preciso istante in cui quella voce agghiacciante finì di risuonare, i gelsi marcirono e i fiumi di latte si prosciugarono. Ai pastorelli berberi vennero strappate le copie di Questione di genere e furono costretti a leggere l’opera omnia di Costanza Miriano e Jordan Peterson. Le giovani Zaghawa in transizione videro i loro moderni centri per la Top Surgery convertiti in spaventosi centri per l’infibulazione coatta. I resort gratuiti che prima affollavano la Libia, sempre per ordine di Minniti, divennero campi di concentramento per i migranti subsahariani e i massaggi con pietre calde cedettero il passo alle lapidazioni. Le numerose scuole steineriane divennero istituti di correzione minorile gestiti dai militanti di Parola della Grazia, e addio rievocazioni della vita di Harvey Milk. Ma la sorte più ingrata toccò al Dattero Rosa, trasformato in un consolato del Texas. Davanti a tutto questo orrore, l’unica consolazione è sapere quanto sono fortunato io che, grazie ai miei informatissimi amici della vera sinistra italiana, ho imparato che tutti i mali della Libia sono nati con il genocida Minniti e non, come vaneggiano Amnesty International e Unhcr nei loro rapporti annuali, già anni prima che nascesse il governo del crudele Gentiloni. Non sopporto queste organizzazioni internazionali che – come dei Burioni qualsiasi – si arrogano il diritto di saperla più lunga della mia filter bubble, che scrive riflessioni articolate e profonde su Facebook. Il fatto che Amnesty International e Unhcr si occupino da sempre di violazioni dei diritti umani in giro per il mondo non le autorizza a imporre informazioni di regime che scagionano il gerarca Minniti, fake news che i miei amici si battono coraggiosamente per smentire giorno dopo giorno, tweet dopo tweet, cuoricino dopo cuoricino. Ora che è stato finalmente squarciato il velo di menzogne che mi bendava gli occhi, posso finalmente attendere con il cuore pieno di indignazione le primarie del Pd per tifare per il mio candidato ideale: Dario Corallo. Anzi, no! Stavoltanon sosterrò nessuno, perché nessuno può rappresentare la mia unicità, e perché nessuno è degno di farsi portavoce della mia incrollabile innocenza.
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