La storia di Ebrima Darboe sarebbe una favola, se non fosse che non basta solamente un lieto fine perché si possa parlare di favola. È più un’avventura, tra “Il Milione” e i Goonies o, forse, il cartoon “Marco dagli Appennini alle Ande”, per chi se lo ricorda ancora. Ma di quelle impegnative e paurose allo stesso tempo, a maggior ragione se ad affrontarla è un ragazzino di soli quattordici anni.
Questa particolare storia inizia a Bakoteh, distretto del Serekunda, la più grande città del Gambia. Una sottile lingua di terra circondata dal Senegal. Lì nasce Ebrima, nel 2001 e lì vive fino al 2015, insieme alla madre (dopo la morte prematura del padre, quando lui ha solo undici anni), a due sorelle maggiori e un fratello minore, giocando soprattutto a calcio, la sua grande passione. «Giocavo con gli amici nella squadra del paese», ricorda lui stesso. «Sognavo sin da piccolo di diventare un calciatore professionista, ma in Africa è difficile affermarsi a grandi livelli senza un aiuto”.
Un amico, vedendolo in azione, lo convince delle sue potenzialità al di sopra della media e lo sprona a persuadere i genitori a lasciarlo partire per l’Europa, per far fruttare al meglio le sue capacità fuori dal comune. Loro acconsentono, si impegnano, ma si scontrano con la burocrazia e non riescono ad ottenere il visto. Così Ebrima, appena adolescente, prende la decisione più importante della sua vita: fuggire dal Paese natale e abbandonare i propri affetti, per rincorrere il sogno che me rempie i pensieri. Senza avvertire i suoi familiari (lo farà solo a viaggio iniziato, per il timore – più che giustificato – che non lo avrebbero lasciato partire), assieme a due amici, sale su un autobus strapieno, con il suo fardello di speranze, desideri e paure ma senza avere una destinazione precisa in mente. Si affida al destino, a Dio, chissà, con l’unica prospettiva di una vita migliore.
Ma l’itinerario per afferrarla passa sempre per le stesse dure e angosciose tappe. Ebrima e i suoi amici attraversano il deserto su quel torpedone scassato e, stipati all’inverosimile, coprono i tremilacinquecento chilometri che separano Bakoteh dalla Libia, il triste crocevia di quasi tutti i migranti, africani e non. In quel Paese tormentato e conteso, in guerra con se stesso e con chi dall’esterno ne vuole approfittare, si situa il punto di passaggio, il trampolino che permette di superare il Mediterraneo e tuffarsi in Europa. Probabilmente – come tanti – Ebrima e i suoi compagni non conoscono qual è il prezzo da pagare per proseguire nel loro viaggio: la sofferenza e la violenza dei campi profughi libici, gestiti da trafficanti di esseri umani senza scrupoli, la feccia della terra. La polvere sotto il tappeto del vicino, nascosta dall’evoluto e inclusivo Occidente, pago di se stesso e dei propri discorsi autoassolutori. E poi il viaggio in mare, rischiando la vita su gommoni e barconi raffazzonati, in balia delle onde e del solito destino che, a seconda dei giorni, può essere benevolo o amaramente tragico. Quanto è lungo, in termini di respiri ansiosi, un viaggio del genere? Quanto timore per la tua vita puoi provare quando all’orizzonte vedi solo il nulla? Quanto coraggio serve a un ragazzo, a una donna, a un uomo per non cedere alla paura?
Ebrima Darboe – che oggi ha vent’anni – lo sa, ma lo tiene per sé: «Non pensavo che sarebbe stato così pericoloso… la difficoltà è stata tanta, vedi tante cose brutte», racconta in un’intervista al sito calcistico “L’ultimo uomo”. Ma subito aggiunge: «Ora è un momento molto importante per la mia crescita, voglio concentrarmi e dare tutto sul campo». Sì, perché questa storia, come abbiamo detto, ha un lieto fine. Ebrima arriva in Sicilia, sei mesi dopo la sua partenza da casa e, attraverso il Sistem a di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), viene trasferito in una casa famiglia a Rieti. È un minore non accompagnato e un migrante economico, l’incubo di certi italiani. Un incubo alto un metro e ottanta per cinquanta chili!
I ragazzi della casa famiglia si affacciano al campo da calcio in cerca di fortuna e Ebrima, che è in Italia proprio per questo, si fa notare. «Erano venuti al campo, da noi, ci chiedevano di giocare – ricordava Massimo Masi, presidente dello Young Rieti, in un articolo de Il Romanista del 2019 -. Sono andato a parlare con chi li gestiva, e abbiamo fatto un accordo, per farli venire da noi, nell’ambito dei progetti di integrazione. In tutto saranno stati una ventina di ragazzi, su 16-17 anni, ma non venivano tutti insieme: dovevano studiare, avevano corsi di italiano, geografia, alcuni corsi erano anche il pomeriggio. Alcuni si allenavano e basta, alcuni giocavano qualche partitella, anche perché tesserarli era complicatissimo: per qualcuno non ci siamo riusciti, non sono arrivati tutti i documenti. Ogni situazione è diversa dall’altra, dipende da quanto tempo sono arrivati in Italia e a che punto è la pratica per il riconoscimento dello status di rifugiato. Su Darboe abbiamo lavorato un po’ anche dal punto di vista fisico: era magrissimo, non aveva struttura. La sua pratica ha impiegato mesi, è intervenuta anche la Fifa, per ogni cosa serviva l’avallo dell’assistente sociale, nominato dal Tribunale, che gli fa da tutore. Ma per fortuna si è risolto tutto per il meglio. Sta vivendo un sogno, speriamo duri il più a lungo possibile. Lui è un bravissimo ragazzo, solare, amichevole, se lo merita davvero».
Circa un anno dopo, durante un torneo internazionale Under 17 che si svolge a Rieti, Darboe colpisce Miriam Peruzzi, uno scout presente nella giuria della manifestazione, “Ebrima era molto magro, esile – ricorda Miriam – ma aveva una visione superiore alla media, rapidità di gioco, passaggio di prima, giocate pulite…”. Il padre di lei, che fa l’allenatore, prende sotto la sua ala quel ragazzino gracile, che diventa uno di famiglia: “Papà tutte le sere lo chiamava per dargli nozioni di tattica”.
Darboe cresce talmente bene che Miriam Peruzzi decide di proporlo alla Roma per un provino, che si conclude positivamente. Il ragazzino fuggito dal Gambia diventa una colonna della Roma Primavera di Alberto De Rossi. E, appena maggiorenne, firma il suo primo contratto da professionista. Oggi guadagna 50 mila euro al mese, che manda quasi interamente alla madre in Africa. La sua carriera non si è ancora fermata: il 2 maggio 2021 esordisce in Serie A contro la Sampdoria e, pochi giorni dopo, debutta anche in Europa League, diventando il più giovane gambiano ad esordire in una competizione europea. Riceve quindi la convocazione da parte del Gambia, la nazionale di calcio del suo Paese, con la quale debutta il giorno prima del suo ventesimo compleanno, partendo da titolare nell’amichevole giocata contro il Niger.
Vedendolo giocare, la qualità che salta subito all’occhio è la calma impressionante con cui gestisce la palla ogni volta che la tocca, anche quando è pressato da avversari più grossi o più forti. Volete che abbia paura di essere marcato chi è stato in un campo profughi in Libia? «Il coraggio l’ho sempre avuto – dichiara Ebrima -. Altrimenti alla mia età non avrei mai fatto quel viaggio». Il viaggio che lo ha segnato, nel bene e nel male, e che ancora ricorda nei suoi post su Instagram: “Tanti di noi sono partiti e purtroppo non sono mai arrivati. Inseguivano un sogno, una speranza e un futuro per loro e per le loro famiglie. Impariamo a non giudicarci, ma a fare il meglio per avere un mondo sempre migliore che non obblighi più nessuno a rischiare la vita per avere un’opportunità”.
“Uno su mille ce la fa” diceva una vecchia canzone. Forse anche meno.
Daniele Lombardi