A distanza di 12 anni dal 17 Febbraio 2011, oggi, la situazione in Libia è caratterizzata ancora da uno stallo politico, che non sembra avere soluzione nel breve periodo, e dalla mancanza di un apparato statale centralizzato in grado di fornire a tutta la popolazione i servizi di base necessari.
Mentre a Tripoli, in questi anni, nell’anniversario della rivolta, la celebrazione è stata presentata da autorità che si consideravano – e si considerano ancora oggi – i “guardiani della rivoluzione” che hanno spodestato l’ex leader Mohammad Gheddafi e hanno difeso la città dall’attacco del feldmaresciallo Khalifa Haftar; in Cirenaica si tende a scoraggiare i festeggiamenti, anzi il messaggio che traspare è quello di un elogio agli sforzi fatti per evitare che il Paese, dopo la caduta di Gheddafi, cadesse in mano all’estremismo islamista.
La rivolta del 2011 ha dato speranze ai libici e la possibilità di tracciare il proprio futuro. In questi anni le opportunità si sono ripetute così come le speranze di cambiamento. Tuttavia, il sentimento tra la popolazione è negativo, per diversi motivi. Per tanti la rivoluzione è fallita. Oggi ci sono due governi. Il Governo di unità nazionale (Gnu), guidato dal premier Abdulhamid Dbeibah, che non è stato in grado, così come il Governo di accordo nazionale (Gna) prima di esso, di unire il paese sotto la propria autorità. E il Governo di stabilità nazionale (Gns), guidato dal premier Fathi Bashagha, creato dal presidente della Camera dei Rappresentanti, Aquila Saleh, e Haftar più per ostacolare il processo politico che offrire un’alternativa costruttiva. In entrambi i casi, i politici vengono considerati dalla popolazione come opportunisti e avidi, senza nessuna legittimità e influenza. Il loro compito era – ed è – quello di trovare un accordo su un quadro costituzionale che potesse (possa) permettere lo svolgimento delle elezioni.
Ad oggi tutti hanno fallito. Anzi, pare che tali politici impediscano un avanzamento nella direzione delle urne per timore di perdere le posizioni acquisite dopo il 2011. Al contempo, al di fuori dei confini, ad alcuni attori stranieri fa comodo una Libia in perenne crisi.
Nel Paese maghrebino non c’è un apparato militare e di polizia centralizzato, nessun organo giudiziario forte, nessuna trasparenza e reale possibilità di sviluppo. Al contrario, dilaga la corruzione. Lo stallo politico, così come l’influenza delle varie milizie e tribù all’interno delle principali istituzioni, non permettono un avanzamento del processo promosso e guidato dalle Nazioni Unite. A ciò, come detto, si aggiunge l’ombra dei diversi Paesi interessati al dossier libico: un’ascendenza ancora oggi forte e presente.
Le elezioni entro fino 2023 sono un miraggio. L’ottimismo di alcune figure non trova riscontro nella realtà. Se, da una parte, l’accordo sul cessate il fuoco – raggiunto nell’ottobre del 2020 – mantiene, nonostante alcune tensioni negli ultimi mesi, dall’altra, le milizie svolgono ancora quel ruolo da protagonisti acquisito con la caduta del precedente regime. I gruppi militari e i loro leader sono diventati determinanti in qualsiasi sviluppo nel Paese e la loro ascesa è un ostacolo agli sforzi volti a unificare e riformare i settori della difesa e della sicurezza, processo fondamentale per una democratizzazione definitiva.
La comunità internazionale da anni è al lavoro per cercare di ricomporre il frammentato quadro, di costruire stabilità, di promuovere iniziative di distensione. Tuttavia, i risultati dei processi e di questi sforzi, tutti guidati dalle Nazioni Unite, faticano ad arrivare. In Libia l’Onu continua ad essere in difficoltà: il problema è stato quello di impostare l’intero processo sulle elezioni, tralasciando sicurezza, stabilità e condizioni socio-politiche per andare al voto. Cambiare l’attuale stato delle cose è l’obiettivo per una svolta. Una situazione che vede diverse questioni aperte. Tra queste quella costituzionale è la più spinosa. Il progetto costituzionale determinerà il futuro libico, l’intero ordinamento statale, i suoi principi fondanti e i rapporti tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Tuttavia, lo zelo dei due organi legislativi attualmente in carica, la Camera dei Rappresentanti (HoR) e l’Alto Consiglio di Stato (HCS), ha sollevato diversi dubbi e sospetti in diversi ambienti libici e internazionali sulla volontà di trovare un accordo al fine di poter arrivare allo svolgimento delle elezioni. In tal senso, come detto, sembra che i due organi non abbiano alcun interesse a cambiare la situazione e raggiungere un’intesa.
Il cammino della Libia lungo la strada della democratizzazione pare essere ancora lungo e irto di ostacoli. Una stabilizzazione definitiva è improbabile senza la nascita di un sistema paese strutturato. In tale contesto, il dialogo nazionale – ai fini di una riconciliazione nazionale – è elemento fondamentale. Tuttavia, la volontà delle parti in causa continua a mostrare che gli obiettivi sono sempre e solo il potere e la tutela dei propri interessi.
(Foto copertina: The Libya Observer)
Mario Savina, analista ricercatore, si occupa di Nord Africa e flussi migratori. Sapienza Università di Roma, AIRL Onlus – Italiani di Libia, OSMED – Osservatorio sul Mediterraneo (Istituto “S.Pio V”)