La Libia rappresenta, nel bene e nel male, un esempio di come oggi la comunità internazionale riesca a incidere nei dossier più importanti. Il suo ruolo, sin dall’inizio della crisi libica, è stato importante. Ma, al tempo stesso, non sempre si è rivelato risolutore. Anzi, al contrario la vicenda relativa al Paese nordafricano ha mostrato profondi limiti gestionali e di interpretazione degli eventi. Prova ne è il fatto che, a 12 anni dall’inizio del conflitto, la Libia ancora oggi si presenta frazionata e senza stabili istituzioni. E questo nonostante copiosi investimenti politici ed economici da parte delle principali organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu. Il primo errore da parte delle Nazioni Unite si è avuto del resto già all’origine del conflitto. Con la risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 da parte del consiglio di sicurezza, è stata istituita una no-fly zone sul Paese come tentativo di imporre un cessate il fuoco tra le forze di Gheddafi e quelle dei ribelli. Con la no fly zone però si è di fatto dato il via libera a un intervento diretto della Nato, con un forte input soprattutto di Francia e Gran Bretagna, volto a rovesciare il regime di Gheddafi. In quell’occasione l’errore principale è stato nel non comprendere da subito che la fine del colonnello avrebbe comportato, già nell’immediato futuro, estremi problemi della stessa tenuta unitaria del Paese.
Il post Gheddafi non è stato adeguatamente contemplato e i tentativi di porre rimedio non sono mai andati a buon fine. Con la morte del rais nell’ottobre del 2011, la comunità internazionale ha provato a dare una risposta più corale ai problemi di stabilità della Libia. L’obiettivo principale ha riguardato l’organizzazione di elezioni. E in effetti, il Paese è andato per due volte al voto: nel 2012 e nel 2014. Ma in entrambi i casi le consultazioni hanno contribuito ad alimentare le tensioni, piuttosto che a dissolverle. Anche in questi frangenti l’errore principale ha avuto a che fare con l’incapacità di leggere dall’esterno le dinamiche interne alla Libia. I vari attori internazionali intervenuti come mediatori nel dopo Gheddafi, hanno sempre cercato di far passare il futuro del Paese dalle elezioni. Non considerando però la realtà del contesto libico. La nascita di decine di milizie, la suddivisione della società in tribù, l’avanzata di alcuni attori interni come, in primis, il generale Haftar non hanno permesso l’esistenza di condizioni ideali per organizzare un voto democratico. Tra il 2014 e il 2015 il disastro libico ha preso ancora più forma con l’avanzata dell’Isis. Lo Stato Islamico è riuscito in quel biennio a creare un vero e proprio califfato a Sirte, minacciando da vicino la Tripolitania. Solo a quel punto le Nazioni Unite hanno compreso l’importanza di lavorare per creare le condizioni politiche in grado di portare la Libia alle urne. Sono così stati organizzati dei colloqui, sotto la supervisione degli inviati Onu in Libia, nella cittadina marocchina di Skhirat. Qui, tra novembre e dicembre 2015, un buon numero di attori libici sono stati radunati attorno a un tavolo per dare vita a un governo unitario e a un percorso volto ad accompagnare il Paese alle elezioni. È nato così l’esecutivo di Fayez Al Serraj, incaricato di guidare la Libia verso un nuovo assetto istituzionale e unitario. L’idea di fondo non è apparsa subito fallimentare. Ma il piano della comunità internazionale è andato a sbattere ancora una volta contro l’incapacità di saper leggere la realtà. Il governo Al Serraj è nato mentre già c’erano altri attori pronti a prendersi la scena. Haftar aveva già lanciato la “sua” operazione Dignità con le proprie forze e si preparava ad entrare a Bengasi e a conquistare l’intera Cirenaica. A ovest, a imporre la propria legge sono state le milizie. Al Sarraj non ha quindi mai avuto alcun chiaro controllo del territorio, né tanto meno il suo esecutivo ha potuto lavorare per attuare il mandato. L’unico risultato tangibile, ha riguardato la sconfitta dell’Isis a Sirte. Un obiettivo però raggiunto grazie allo sforzo delle milizie di Misurata, aiutate dall’aviazione Usa e ben lontane dal costituire un vero e proprio esercito. C’è però da sottolineare anche come le Nazioni Unite hanno dovuto operare in un contesto di forti dualismi internazionali. A partire da quello, tutto interno all’Europa, tra Italia e Francia. Il duello politico (diventato militare nel marzo 2019) tra Al Sarraj e Haftar ha corrisposto a un duello tra Roma e Parigi per contendersi una propria sfera di influenza nel Paese nordafricano.
Nel 2018 una simile situazione è apparsa ancora più evidente. Nel maggio di quell’anno, il presidente francese Emmanuel Macron ha convocato all’Eliseo sia Al Serraj che Haftar. A novembre, l’allora presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte ha risposto organizzando una conferenza internazionale a Palermo. Anche in quell’occasione, Al Sarraj (ritenuto più vicino all’Italia) e Haftar (considerato invece maggiormente sostenuto da Parigi) hanno posato per una simbolica stretta di mano. In quella conferenza però, il ruolo delle Nazioni Unite è apparso in un primo momento rilanciato. L’Italia ha infatti promosso un percorso, sotto l’egida del Palazzo di Vetro, che prevedeva una cabina di regia e di monitoraggio internazionale per portare poi la Libia al voto entro il 2019. Tutto è naufragato con l’attacco militare di Haftar contro Tripoli e contro le milizie vicine ad Al Sarraj. Ancora una volta la comunità internazionale nel suo insieme, quindi non soltanto con riferimento all’Onu, ha dimostrato l’incapacità di saper leggere le situazioni. Nessuno infatti ha tenuto conto delle velleità militari del generale Haftar e della convinzione di quest’ultimo di poter, anche tramite accordi sottobanco con alcune milizie di Tripoli, prendere agevolmente il potere. Quell’attacco è in seguito fallito, con il generale costretto a ritirarsi dalle regioni occidentali. Ma ha lasciato sul campo un Paese ancora più diviso.
La frammentazione a sua volta ha favorito una divisione anche a livello internazionale. Dal 2019 in poi, sono infatti entrati in scena altri attori. A partire dalla Turchia, divenuta nel novembre di quell’anno principale sostenitrice del governo di Al Sarraj. La Russia, già impegnata a sostegno di Haftar nel 2016, si è mostrata ancora più vicina al generale. Il dossier Libia è stato preso in mano anche dai Paesi del Golfo: il Qatar si è mosso a sostegno di Al Sarraj, gli Emirati Arabi Uniti invece hanno girato mezzi e soldi ad Haftar. Da non dimenticare poi il ruolo dell’Egitto di Al Sisi, vicino ad Haftar. In una condizione del genere, l’Onu è tornata a formulare una propria proposta di risoluzione del problema soltanto nel 2021. A inizio anno è stato infatti dato vita a un forum che ha votato per la formazione di un nuovo governo di unità nazionale, con a capo il misuratino Abdul Hamid Ddeibah. L’obiettivo era giungere ad elezioni entro il 24 dicembre 2021, settantesimo anniversario dell’indipendenza libica. Un obiettivo arenatosi ancora una volta davanti lo scoglio rappresentato da una realtà impreparata al voto. In definitiva, è possibile affermare che la comunità internazionale in Libia si è mossa parecchio, in un senso o nell’altro, e ha inciso notevolmente nella recente storia del Paese. Quegli attori chiamati a mediare, a partire dalle Nazioni Unite, hanno fallito nel momento in cui non è stata compresa la realtà libica. Né negli ultimi mesi dell’era Gheddafi, né successivamente. Se oggi la Libia continua a essere divisa, è perché nessuno ha preso in considerazione le peculiarità sociali e politiche del Paese. Il rischio, in previsione futura, è che si continui su questa fallimentare strada.
Mauro Indelicato