La scorsa settimana la Camera dei Rappresentanti (HoR) ha approvato il pacchetto di leggi elettorali proposto dal Comitato misto 6+6, composto da sei membri dell’HoR e sei dell’Alto Consiglio di Stato (HCS). Il presidente dell’organo legislativo con sede in Cirenaica, Aguila Saleh, ha poi fatto appello alla comunità internazionale per ricevere il sostegno per la formazione di un nuovo esecutivo transitorio che possa accompagnare il Paese alle urne. Nella visione di Saleh, il nuovo governo dovrebbe sostituire le due compagini oggi presenti, il Governo di unità nazionale (Gnu) di Tripoli e il Governo di stabilità nazionale (Gns) di Sirte.
Tuttavia la mossa politica unilaterale del parlamento potrebbe alimentare nuove tensioni. Non solo il contenuto delle leggi non è stato diffuso (e su questo punto sono arrivate anche le proteste della missione delle Nazioni Unite in Libia, Unsmil), ma soprattutto il progetto di creare un nuovo governo si scontra apertamente con le intenzioni del premier del Gnu, Abdulhamid Dbeibah. Quest’ultimo, infatti, ha sempre dichiarato la sua volontà di arrivare alle elezioni con il suo governo in carica. In soccorso del premier misuratino è arrivato il neopresidente dell’HCS. Mohammed Takala, eletto lo scorso agosto, ha dichiarato apertamente di non accettare le leggi approvate dall’HoR, oltre al fatto che l’organo da lui presieduto ha recentemente approvato lo scioglimento del comitato misto perché avrebbe terminato il lavoro per il quale era stato formato. La disputa nasce dal fatto che le leggi appena approvate sarebbero diverse rispetto all’accordo raggiunto a Bouznika lo scorso giugno tra le delegazioni dei due organi. La vicinanza tra Takala e Dbeibah è cosa nota in ambiente libico e il muro alzato dall’HCS contro l’HoR non fa che confermare l’alleanza. Bloccare il processo elettorale e le richieste di formazione di un nuovo esecutivo sono evidenti segnali della postura in favore dell’attuale governo di Tripoli.
Nel frattempo, a Bengasi, capoluogo della Cirenaica, il ritorno di Mahdi al-Barghathi – ex ministro della Difesa del Governo di accordo nazionale (Gna) – ha creato non poche tensioni. Prima di accettare il ruolo all’interno dell’esecutivo guidato dall’allora premier Fayez al-Serraj, Barghathi era ufficiale dell’Esercito nazionale libico (Lna) guidato da Khalifa Haftar. Oltre al “tradimento”, Barghathi è accusato di essere stato coinvolto nella strage di Brak al-Shati, in cui persero la vita più di 140 persone tra militari e civili. Il suo ritorno a Bengasi, senza l’autorizzazione del Lna, era stato sostenuto da alcuni leader della tribù Awaqir. Tuttavia, le inziali tensioni si sono trasformate nell’interruzione delle comunicazioni in tutta la città e in scontri aperti tra le unità del Lna e gli uomini di Barghathi, che è stato costretto alla fuga. Secondo fonti locali, la disputa avrebbe causato anche la morte di alcuni civili.
Per concludere, le difficoltà per il raggiungimento di una vera intesa sul fronte politico creano non poche preoccupazioni. A distanza di oltre un decennio dalla caduta di Moammar Gheddafi, ancora oggi il cammino verso la stabilizzazione definitiva del Paese nordafricano pare essere lungo e travagliato. La logica degli attori influenti – domestici, ma anche internazionali – continua ad essere quella di lavorare, totalmente, per la tutela dei propri interessi, mentre la Libia e la popolazione seguitano a navigare nell’ignoto. Al contempo, di pari passo con il processo politico, il ripristino del settore della sicurezza è una delle principali questioni e sfide per il Paese e per la comunità internazionale. In tal senso, la riunificazione dell’apparato militare permetterebbe un miglioramento in termini di sicurezza sull’intero territorio e porrebbe fine alla lotta di interessi che oggi caratterizza il dialogo tra i diversi gruppi attivi sul territorio.
Mario Savina, analista ricercatore, si occupa di Nord Africa e flussi migratori. Sapienza Università di Roma, AIRL Onlus – Italiani di Libia, OSMED – Osservatorio sul Mediterraneo (Istituto “S.Pio V”)