Tanto abbiamo scritto sui “Bimbi della IV Sponda” ma questa vicenda è ancora per molti connazionali sconosciuta. Di conseguenza, per riempire questo vuoto, riproponiamo alcuni articoli pubblicati nel corso degli anni su Italiani di Libia, così da ridare voce a coloro che hanno vissuto quell’evento. Qui riportiamo l’esperienza dei fratelli Valerio e Dino Cappello.

La partenza da Derna. Verso la fine dell’Aprile 1940 le autorità civili e militari della Libia invitano tutte le famiglie a mandare in Italia i minori in età compresa fra i quattro e i quattordici anni, per una vacanza presso colonie marine della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio). Fra bimbi piccoli e ragazzi più grandi della Cirenaica e della Tripolitania siamo in tredicimila destinati a lasciare la Libia. È quasi un esodo. Io ho dodici anni, mio fratello Rino quasi nove. Partiamo. Nostra sorella Rita ha poco più di due anni e quindi resta a casa. Il mattino del 6 Giugno 1940, con una borsa contenente gli indumenti personali contrassegnati con il nostro nome, dopo aver salutato tutti, dopo aver abbracciato la mamma e Rita ed anche l’inseparabile Cadigia, dalla quale da bambini abbiamo imparato le prime parole della lingua araba, papà ci accompagna ai campi da tennis di via 17 Ottobre, nei pressi del porto, per il raduno, o meglio, per l’adunata. Fa caldo e durante la lunga attesa ci offrono un panino e una gazzosa nella bottiglietta con la pallina in cima, da spingere con il dito per aprirla e poter bere. Siamo in tanti, forse un migliaio. Tutti di Derna e dei paesi o villaggi della provincia. Noi più grandicelli siamo in divisa da balilla, i più piccoli da figli della lupa e le ragazze rispettivamente da piccole italiane e da figlie della lupa. Siamo suddivisi in squadre che tengono conto di età, sesso e provenienza. Il capo squadra è scelto fra noi e siamo agli ordini di una vigilatrice con la divisa della milizia. La nostra, già in partenza da Derna, è la Signora Passarello. Le Signore Cioffi, Serrantini e Comitini sono assegnate ad altre squadre. Attorno a noi genitori e Autorità. Arriva un ordine: “Tutti in fila, si parte!” Marciamo ben inquadrati verso il porto. Dal molo vediamo la nave, probabilmente la Marco Polo ancorata al largo. Non può attraccare alla banchina perché i fondali sono bassi e il mare è mosso. Per raggiungerla saliamo sulla maona, una grossa chiatta in uso nei porti. Rino ed io salutiamo il nostro papà con un abbraccio forte forte. Per questa inaspettata partenza siamo un po’ sbigottiti ma nel contempo sereni, direi anche spensierati perché andiamo in vacanza in Italia. Viviamo tuttavia in un particolare stato d’animo. Sappiamo e non sappiamo; intuiamo però che c’è qualcosa di strano nell’aria anche perché nel momento dei saluti il sorriso dei nostri cari è un po’ velato. Sanno quel che a noi sfugge. Sono tanti i segnali che da qualche tempo lasciano temere la ormai imminente dichiarazione di guerra. Tra questi: le ripetute prove in città dell’allarme con le sirene, l’imposto oscuramento con vernice o carta blu sui vetri in tutti gli edifici per non far filtrare la luce verso l’esterno. Si vedono circolare in città le truppe coloniali che provengono dall’Eritrea, i reparti sahariani con meharisti per le operazioni nel deserto, gli zaptiè che sono guardie di polizia e gli ascari che sono volontari, con vistose divise, berretti rossi e scarpe colorate. I graduati, chiamati schumbasch, portano il curbasc, un lungo scudiscio di pelle. Da qualche tempo arrivano continuamente piroscafi dai quali sbarcano militari, armi, cannoni e mezzi corazzati. Anche l’anticipata chiusura delle scuole non lascia pensare bene. Noi ragazzi scopriamo così le giberne, le fasce gambiere verdi dei soldati, le uniformi militari con tanto di mostrine e stellette, gli scarponi con i chiodi, gli elmetti, le baionette, le pistole, i fucili, le mitragliatrici, i cannoni ed i carri armati. Nessuno con noi ragazzi parla di una pur prevedibile guerra. Torniamo alla partenza. Rino ed io ci prendiamo per mano e incominciamo il lungo viaggio. Il mare è in burrasca e quel breve tratto che dobbiamo percorrere a bordo della maona verso la nave ci disturba ma nel contempo ci distrae. Nella nave c’è un po’ di confusione: chi soffre il mare, chi piange perché non c’è la mamma, chi non trova la sorellina o il fratello, la propria vigilatrice o la cabina assegnata. Chi non riesce a dormire sui sedili della sala bar o sui materassini distribuiti sul pavimento. La nave prende il largo il mattino successivo. Durante tutta la navigazione di essere allegri non se ne parla affatto.

L’arrivo in Italia. È l’8 giugno 1940. Sbarchiamo, se ben ricordo, a Brindisi. La stessa sera ci conducono alla stazione ferroviaria. Sui binari c’è movimento: gente in divisa, fuochisti e macchinisti. Ci sistemano su un treno, il treno a vapore di quel tempo, riservato a noi. Dopo aver mangiato qualcosa e bevuto un po’ di acqua, riusciamo a passare la notte dormendo sui sedili di legno nonostante il rumore del vagone sui binari e della locomotiva che con il suo pennacchio di fumo sbuffa per ore ed ore e ogni tanto fischia. La corsa finisce il giorno successivo, dopo ripetute fermate ai caselli e alle vecchie stazioni, a Miramare di Rimini dietro la Colonia Marina Novarese che ci ospita. Siamo stanchi, ancora assonnati e sporchi soprattutto per la fuliggine che esce dalla motrice del treno accumulata durante la notte. Ci danno ancora qualcosa da mangiare e da bere, poi ci assegnano il letto sul quale non vediamo l’ora di sdraiarci. Qualche mese dopo ci trasferiscono per breve tempo a Fesca nella periferia di Bari e, infine, a Bordighera in Liguria. Ovviamente non sappiamo, non immaginiamo neppur lontanamente quel che ci attende il giorno dopo il nostro arrivo a Miramare. Il 10 giugno 1940, infatti, Benito Mussolini dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra alleandosi alla Germania già in armi. Ci siamo! Incominciamo anche noi ad intuire quel che sta succedendo, quel che ci aspetta. Lo comprendiamo anche perché ci dicono che l’Italia, approfittando dell’avanzata dei tedeschi al nord, occupa Mentone e la annette al nostro territorio; annessione che però dura poco tempo. Le cose vanno male per l’Italia, ma la propaganda del tempo riesce a tener lontana dai nostri pensieri la triste previsione del peggio che avanza.

La disciplina in colonia. In tutte le colonie nelle quali siamo sistemati, l’organizzazione, i rapporti con i superiori, le regole di vita sono quasi militari e sono uguali, salvo qualche sfumatura. La divisa è di rigore sia per i dirigenti ed il personale di servizio, sia per noi ragazzi. Per andare in spiaggia dobbiamo indossare il cosiddetto pagliaccetto. Tutti gli indumenti di ricambio ci sono forniti dal guardaroba della colonia. Le marce e i saggi ginnici sono all’ordine del giorno. Partecipiamo disciplinatamente alle solenni cerimonie dell’alzabandiera al mattino e dell’ammainabandiera alla sera. Durante l’estate andiamo alla spiaggia, dove ci sbizzarriamo con i giochi sulla sabbia o con i sassolini portati dal mare. Poi il bagno, tutti insieme, squadra per squadra. Nelle ampie camere (dette anche camerate), dormiamo su letti a castello che devono essere sempre ben fatti, perfetti. La biancheria personale deve essere ben piegata. Anche noi dobbiamo essere rigorosamente in ordine: divisa pulita, scarpe lucide, capelli pettinati, tanto che facciamo frequente uso di specchio, pettine e tanta brillantina solida; quando manca, usiamo acqua e sapone per tenere ben incollati i capelli tirati all’indietro, all’umberta come diciamo noi e come vuole la moda. La riga sui capelli? Si, qualche volta, tanto per cambiare. Consumiamo la colazione e i pasti tutti insieme in vasti refettori. Il cibo è sufficiente, qualche volta scarso. Abbondano, si fa per dire, i primi piatti a base di riso, di pasta o di castagne secche cotte nel latte, specialmente in Liguria. Per i secondi quasi sempre coniglio, uova sode o frittata, patate e verdure varie; alla fine una mela o un grappolo di uva. L’acqua non manca mai. L’ora più bella della giornata è quella della distribuzione della corrispondenza. Quando arriva posta per noi facciamo salti di gioia. Ci fanno sentire poco il rumore della guerra. A noi nella colonia non dicono nulla. Sappiamo comunque che in Libia si spara, si combatte, che i nostri genitori sono in pericolo anche se da loro riceviamo qualche lettera rassicurante. Giochi, marce e attività varie ci distraggono ma con il passare del tempo la malinconia cresce dentro di noi, avvertiamo ugualmente il disagio e la sofferenza per la lontananza dalla famiglia per un tempo che sembra non abbia mai fine. Se pur con fatica, cerchiamo di non far  affiorare le tensioni latenti. In tutte le colonie troviamo buon trattamento, rispetto, accoglienza, assistenza, comprensione, anche affetto sia da parte del personale, sia della gente del posto. Stiamo bene e siamo sereni. In alcune colonie sparse in altre località le cose non vanno altrettanto bene, così dicono.

UNA STORIA DIMENTICATA (Prima Parte)

A Miramare di Rimini. La prima, a Miramare di Rimini, è la colonia Novarese. È bella, ha la forma di una grande nave con tante vetrate già colorate di blu per l’oscuramento. I nostri letti sono sistemati ai piani superiori ai quali si accede percorrendo rampe e non scale. Intorno alla colonia esiste una vasta area. La zona che confina nella parte posteriore con la ferrovia è ricca di piante. Ampio è lo spazio in quella anteriore che arriva fino al lungomare sotto il quale c’è un tunnel che permette l’accesso diretto alla spiaggia. Dietro il fabbricato principale è situata una palazzina adibita ad infermeria con un reparto destinato ad isolamento per gli affetti da malattie infettive. Alla colonia Novarese siamo circa un migliaio quasi tutti di Derna e dei paesi o dei villaggi della provincia fra i quali Giovanni Berta, Luigi di Savoia, Cesare Battisti, Mameli, Beda Littoria, Luigi Razza, Cirene, Apollonia e Barce. La spiaggia è ampia, la sabbia è molto sottile e pulita. Facciamo buche per trovare l’acqua, costruiamo case e sculture con la sabbia umida, giochiamo con la palla, la corda, i sassolini e anche con le carte. Il bagno, mai troppo lungo, ci consente di rincorrerci, nuotare e schiamazzare, sempre controllati a vista dalle vigilatrici e dai bagnini. Ricordo con simpatia Pina Ponti, una giovane alta e bella vigilatrice di Novara, che ci fa cantare e ci insegna interessanti giochi. Brava anche la Sperti di Bergamo con il suo vocione e le sue frequenti ma benevole sgridate. Un giorno mentre guardiamo dalle cancellate della colonia il passaggio della gente sul lungomare, vediamo il Duce in bicicletta, vestito di bianco, abbronzato, diretto verso Rimini. Lo riconosciamo subito tutti. Si sparge immediatamente tra noi la voce; l’occasione è unica, ma aspettiamo invano che ripassi per il rientro. Sappiamo poi che sta trascorrendo la vacanza a Riccione dove ha una villa di fronte al mare.

A Bari e dintorni. Prima della fine dell’estate ci trasferiscono in Puglia, distribuiti tra Fesca, Andria, Bitonto e Barletta. Noi dernini siamo concentrati quasi tutti a Fesca, nella periferia di Bari. Io parto da Miramare una o due settimane dopo gli altri perché sono in isolamento avendo preso la scabbia, malattia infettiva e contagiosa della pelle. La lontananza da mio fratello Rino, che è già partito, dura poco. Buona l’accoglienza, bella ma non tanto ampia la spiaggia davanti alla colonia di Fesca. Allieta il nostro palato l’uomo onesto – così si proclama e si annuncia – che con il suo triciclo attrezzato vende a poco prezzo gelati, dolci e canditi. Nel complesso stiamo bene, anche se incominciamo a domandarci quando torneremo a casa nostra. Il soggiorno nella colonia pugliese dura poco. In novembre si parte di nuovo. Con il trenino andiamo da Fesca ad Andria. È una sosta di due, tre giorni. Il cibo è scarso; si dorme vestiti sul pavimento. Per non dire d’altro come il fastidio per pidocchi e pulci in un ambiente tutt’altro che pulito. Poi siamo di nuovo in treno diretti in Liguria.

A Bordighera. Dopo un lungo, interminabile viaggio su vagoni rumorosi, sistemati come sempre su scomodi sedili di legno, giungiamo a Bordighera dove siamo accolti in bellissimi alberghi trasformati in colonie marine per noi ragazzi della Quarta Sponda. Parte dei tripolini e dei bengasini sono distribuiti nei grandi alberghi: Continentale, Reale, Hangst ed Esperia. A Villa Iolanda sono accolti un’ottantina di bambini piccoli con le loro mamme. Per i maschi più grandi, ottantadue giovani in tutto, c’è un altro albergo denominato la Casermetta dove la disciplina è rigorosa, quasi militare con tanto di sentinella e corpo di guardia con il moschetto.

Fine Prima Parte.

Di Valerio Cappello. Pubblicato su Italiani di Libia 4-2013