Il fascicolo contro l’ex presidente francese è basato su «false prove», strategia insegnata a suo tempo dai sovietici al gheddafismo nascente

 

I miei lettori sanno che, da febbraio a ottobre del 2011, impiegai tutte le mie energie per convincere la comunità internazionale e, innanzitutto, il mio Paese, a intervenire in Libia per evitare il massacro di un popolo. Sanno che l’intervento militare, al quale partecipava una coalizione di Paesi occidentali e arabi, mi sembrava — mi sembra tuttora — la risposta necessaria, adatta e proporzionata alla terrificante eventualità di veder scorrere lungo le strade della Cirenaica e della Tripolitania i «fiumi di sangue» promessi dalla famiglia Gheddafi. Non ignorano, poiché in un libro e poi in un film ne ho fatto la cronaca precisa e quotidiana, che in quel periodo fui in frequente contatto con l’allora presidente Nicolas Sarkozy; che lo vidi servirsi del suo virtuosismo persuasivo affinché i suoi omologhi decidessero di non mancare all’appuntamento di un popolo arabo che rivendicava il proprio diritto alla dignità e di fare così coincidere, una volta tanto, l’etica di convinzione e quella di responsabilità. E nemmeno ignorano che, pur non avendo mai votato per lui, ho agito con lo stesso spirito di quando accompagnai il presidente bosniaco Izetbegovic da François Mitterrand o il futuro presidente ucraino Poroshenko da François Hollande o il generale curdo Barzani da Emmanuel Macron: mi sono comportato come cittadino impegnato o, se si preferisce, come un whistleblower intellettuale che si serve del proprio diritto civico di interpellare il potere in carica. Forte di tutto questo, fiero di essere stato un onesto mediatore della libertà libica, mi sento in dovere di dire come il fatto che Nicolas Sarkozy sia oggi stato rinviato a giudizio mi lasci dubbioso, perplesso, incredulo e indignato. Dubbioso quando considero un fascicolo istruttorio la cui chiave di volta sembra sia la famosa «nota» che sarebbe stata inviata, nel 2006, dall’ex capo dei servizi di intelligence libico Moussa Koussa all’ex capo di gabinetto Bashir Saleh. Il primo ha subito negato di averla scritta. Il secondo di averla ricevuta. E ricordo che il mio amico Ali Zeidan — futuro Primo ministro della nuova Libia, una delle figure laiche e amanti dei diritti dell’uomo che sono la fortuna dell’Islam dei Lumi — aveva dichiarato, anche lui immediatamente, che quel documento, ritenuto essere l’infallibile traccia del misfatto, faceva parte dell’arte dei «kompromat», delle «false prove», insegnata a suo tempo dagli amici sovietici al gheddafismo nascente. Perplesso di fronte a tale intrigo, degno di un pessimo romanzo di John Le Carré, ordito giorno dopo giorno dalle chiacchiere da bar. Il fatto è che, all’epoca, incontrai personalmente, in condizioni talvolta stravaganti, emissari occulti, diplomatici ufficiosi o plenipotenziari ombra che la dittatura allo stremo inviava. L’uno proponeva uno schema di espatrio. L’altro, una tregua simulata. Il terzo, un compromesso che consentisse alla Guida di lasciare il potere senza lasciarlo, salvando al tempo stesso la faccia. Ebbene, mi sorprende constatare che nessuno di questi fanatici teleguidati, nessuno di questi sicofanti abbia mai suggerito, fosse pure al volo, quello di cui chiunque, in tale situazione, a un passo dalla disfatta, si sarebbe servito come principale atout. Non uno di loro, davanti a me, evocò mai lo spettro di una possibile «nota», o la spada di Damocle di un eventuale «indizio» che avrebbero screditato il leader della Coalizione e invertito il corso della guerra. Incredulo quando penso che Gheddafi stesso teneva schierate davanti alle porte del suo palazzo, per mesi, le televisioni del mondo intero, mentre gli sarebbe bastata una parola per convocare il fior fiore del giornalismo che scalpitava, con telecamere e microfoni, fra l’albergo Corinthia e le zone dei combattimenti; e quando constato che non una volta, sul bordo del baratro, ebbro di vendetta, colse l’opportunità di reiterare le accuse timidamente lanciate all’inizio del conflitto ma che avrebbero avuto l’effetto di fermare, ancora una volta, la guerra. Ero presente. Ho vissuto quei giorni e quelle settimane. E lui che doveva la sua lunga sopravvivenza politica alla pratica del ricatto permanente, lui che non aveva mai esitato a monetizzare la propria impunità agitando la minaccia di lasciar piombare sull’Europa le fiumane di migranti che teneva in riserva, lui che si giocava la vita propria e del regime, ecco non posso credere che non avrebbe tirato fuori, se fossero esistiti, diari segreti, note o registrazioni che avrebbero assicurato alla sua tirannia alcuni anni ancora. Sono indignato, infine, nel constatare di nuovo che la presunzione di innocenza viene meno e che essere indagati equivale ad essere condannati; nel sentire gli uni e gli altri inventare trame di scenari alla Scorsese e prendere come oro colato le parole di imbroglioni che della loro duplicità hanno fatto una professione; e nel vedere i commentatori fingere di ignorare il gioco sotterraneo di un clan che, in verità, ha un unico piano: restaurare il suo potere perduto, vendicarsi di colui che ha contribuito alla sua destituzione. E non tirarsi indietro davanti a nessuna bassezza, a cominciare dalle «prove» che ci vengono lanciate come molliche alle anatre e che, possiamo immaginare, non sono che un inizio. Un’ultima parola. Rimasi sbalordito quando l’ex presidente della Repubblica, oggi con le spalle al muro e solo, ricevette in pompa magna Gheddafi all’Eliseo. Ma, a meno che l’accusa mi dimostri un giorno il contrario, gli sono riconoscente di aver messo in opera, giunto il momento, un dovere di ingerenza che continuerà a far onore al suo mandato; dovere crudelmente mancato al popolo siriano davanti a Bashar al Assad e a Daesh, e che Vladimir Putin usa non per difendere la libertà dei popoli ma per calpestarla.