“Con la rivoluzione ci siamo rialzati dopo 40 anni. Ma nel paese pesa l’eredità del dittatore”. Parla lo scrittore premio Pulizer.

Hisham Matar lo scorso anno ha vinto il premio Pulitzer per l’autobiografia con “Il ritorno”; racconto della sua condizione di figlio alla ricerca del padre – Iaballa Matar – oppositore del regime di Muammar Gheddafi, sequestrato al Cairo nel 1990 e condotto nella prigione libica di Abu Salìm, la prigione degli oppositori politici dell’ex rais. La prigione delle torture e del massacro del 1996 in cui 1.270 persone furono giustiziate e ammassate nei cortili, a marcire. I testimoni sopravvissuti ricordano di quel giorno che il rumore dei proiettili era durato ore, ininterrotto. Da Abu Salim si sono perse le tracce anche di Iaballa Matar, “Il ritorno” è il racconto di un’assenza, viva nella memoria di figlio come
l’eredità più difficile con cui convivere. Nel marzo de12012, dopo la rivoluzione, Hisham Matar torna in Libia per la prima volta, sulle tracce del padre, per colmare quella distanza e raccontare l’assenza come recita il sottotitolo del libro: Padri, figli e la terra fra di loro.

C’è stato un evento specifico prima di Iniziare a scrivere “Il ritorno” che l’ha Incoraggiata a iniziare il libro o è stata una naturale evoluzione del suo percorso come scrittore?

«Ho sempre trovato curioso quanto fosse per me impossibile stabilire quando i miei libri abbiano effettivamente avuto
inizio. È quando scrivo la prima riga, è quando ho l’idea, o è quando sono nato? Forse tutti portiamo i nostri libri con noi, e solo alcuni finiscono per scriverli o per scriverne almeno una parte. In ogni caso, “Il ritorno” è nato da quell’importantissimo viaggio che ho fatto tornando in Libia nel 2012 dopo trentatré anni».

Come descriverebbe oggi la Libia” osservandola da lontano?

«La Libia è un paese giovane con una storia travagliata e un difficile presente. Sta tentando di navigare attraverso i fantasmi del passato e le zone violente- mente spaccate del presente. È anche un paese molto ricco e questo spesso significa che altri lo guardino con il desiderio di un parassita, e lo stesso fa, purtroppo spesso, parte della sua stessa gente».

Nel suo libro ci sono pagine di grande coraggio che descrivono la storia della Llbla, Il regime di Gheddafi, I suoi servizi segreti. Oggi la letteratura può ancora cambiare le cose? La parola è ancora uno strumento in grado di spostare equilibri?

« Un sinonimo di letteratura è verità, e per scrivere qualcosa di vero bisogna mettere da parte le proprie cause e le proprie ;. ambizioni. La letteratura è intransigente sulla sua libertà; richiede di essere libera anche dal suo stesso autore. Se uno scrittore cercasse di impiegare la letteratura per i propri scopi, si renderebbe ridicolo. Ma questo non significa che la letteratura non cambi il mondo, ma piuttosto è così che cambia il mondo. Credo che lo faccia, ma alle sue condizioni. Quante volte sono stato italiano, irlandese, giapponese, nero o gay? E quante volte sono stato ucciso e sono stato assassino. Sono stato una donna molte volte. È grazie alla letteratura che ha espanso il mio cuore, mi ha coinvolto nella vita degli altri».

Pensa che la letteratura araba possa aiutare a portare avanti le motivazioni che hanno animato la rivoluzione del 201.1 o ritiene che quelle motivazioni siano andate perdute?

«Penso che le rivoluzioni del 2011, come forse tutte le rivoluzioni, siano complesse e imperfette. Spesso lasciano dietro le loro spalle un debito di smarrimento e confusione. E quindi questo, anche se indirettamente, deve toccare l’artista. La letteratura in particolare, con il suo interesse per uomini e donne in antitesi con i loro stessi cuori, è interessata a momenti di tale conflitto interiore».

Il suo libro è una summa della storia della Libia. Oggi la Libia· a mio avviso – non paga solo il prezzo della negligenza dei paesi occidentali dopo il 20:u., ma è ancora vittima del regime di Gheddafi. Quando legge le notizie libiche, di fronte alla guerra civile che sembra non finire, ai gruppi fondamentalisti nel paese, cosa si aspetta per Il futuro?

«Il presente è sempre un sintomo del passato. E lo è ancora di più con Gheddafi perché il suo progetto era quello di creare una Libia e la sua gente a sua immagine. E ha avuto quattro decenni per farlo. Ci è quasi riuscito. Questo è l’aspetto straordinario della nostra rivoluzione. Ci siamo rialzati dopo tanta oppressione. Ciononostante, l’eredità naturalmente rimane, e gran parte della Libia di oggi – il modo in cui il potere è negoziato o meno, il modo in cui la violenza è preferita al dialogo, il peso politico dell’umiliazione, la natura rudimentale delle istituzioni private e statali – tutti questi sono gheddafismi. E, cosa peggiore, quel contesto è stato un eccellente terreno fertile per l’estremismo. L’estremismo, dopo tutto, è un’espressione di disperazione».

Parlo della mia esperienza in Libia: negli ultimi due anni ho riscontrato un fenomeno preoccupante: un numero crescente di persone, soprattutto I giovani intorno ai 25-30 anni, guardano al regime di Gheddafi con nostalgia. Perché accade secondo lei?

«George Orwell, da qualche parte nei suoi libri, credo in “Omaggio alla Catalogna’; osserva come il fascismo cavalchi sulle spalle della borghesia. Il desiderio di stabilità può far accettare molta oppressione. Niente di nuovo né unico. Quindi capisco la sensazione. Ma il problema è di logica: se l’oggi è il risultato del passato come possiamo desiderare che torni la causa della situazione attuale? E poi: ho sempre rilevato in un tale lamentarsi un atto di auto commiserazione. Mi ricorda la vittima dello stupro che si in colpa se stessa. Nessuno merita di essere trattato con violenta umiliazione. I diritti fondamentali sono dovuti a ognuno di noi».

Pochi mesi fa a Tripoli ho incontrato una persona che ha combattuto nel 2011. Mi ha detto: “Sotto Gheddaflla vita non aveva odore, oggi la vita puzza”; come si può dare speranza ai giovani che si sentono illusi dalla rivoluzione e abbandonati?

«Il presente ci obbliga a impegnarci nuovamente con la nostra storia, per capire come siamo arrivati qui. Spero che lo faremo, ma non sono fiducioso perché, se guardi in giro – l’Italia tè un ottimo esempio la maggior parte dei paesi non è brava a guardarsi allo specchio. È un fallimento umano comune».

La condizione di esilio interiore è cambiata dopo “Il ritorno”?

«Il mio esilio non è mai stato un fatto interiore o spirituale, ma piuttosto materiale: non è che non volessi tornare; semplicemente, a causa della situazione politica, non potevo tornare a casa. Così ora che sono stato in grado di tornare e posso continuare a farlo, non sono più un esiliato. II che per me è un sollievo, perché non mi è mai piaciuta la parola esilio».

“Il ritorno” ha alleviato Il peso della sua storia o lo ha reso più difficile?

«Mi ha permesso di fare un passo avanti, di non essere come quell’uomo nel sogno che descrivo nel libro in cui appaio a me stesso come una figura deformata con la testa rivolta sempre all’indietro. Sono un po’ più interessato al presente ora e, nei giorni audaci, anche al futuro. •

Noi, rifugiati invisibili

Quando Ali Mohammèd entra nella sua casa alla periferia di Misurata, ha con sé un po’ di pane e un pacco eli pasta. Ali ha trentadue anni. lavora sotto pagato in un panificio della città da meno di un anno. Con quello che guadagna può comprare un po’ di pasta per I suoi figli. Niente di più nutriente. Misurata è l’ultima tappa dell’esilio della famiglia d Ali, del viaggio che li ha portati via dalla Siria, l’ultima tappa della loro fuga da Ghouta. In Siria Ali era benestante, aveva un negozio, aveva sposato la giovane Nour ed era già padre del primogenito, Bassam. Poi la guerra, le bombe e la paura. La vita e la morte che arrivano insieme, il terrore dei combattimenti e la nuova gravidanza di Nour. Non possiamo più stare qui, ha detto Ali alla moglie, alla notizia dell’arrivo di un altro figlio. E così è iniziata la loro fuga ad ostacoli. Prima il Libano E! l’Egitto: Ali sperava di trovare lavoro per un po’, aspettare la nascita del secondo figlio e la fine della guerra e poi tornare a casa, ma la guerra non finiva mai. E l’esilio li ha portati in Libia. Era Il 2013. Iniziava I assedio di Ghouta, la Siria si faceva sempre più lontana. C’erano altri siriani in Libia, mi dissero che avrei trovato lavoro facilmente, che il paese stava affrontando con ottimismo la transizione democratica dall’era di Gheddafi-, dice Ali, «non potevo Immaginare che anche la Libia stesse per ricadere in una guerra civile, non potevo sapere che sarebbe diventata una trappola-. Ali e la sua famiglia hanno vissuto per un anno a Sirte, poi Sirte è stata occupata dai miliziani dell’Isls. «Ho portato via i miei cari dalle bombe di un regime e in Libia hanno Vissuto i giorni più duri della loro vita, della loro infanzia. Un giorno a Sirte gli uomini dell’lsis decapitarono un uomo, un irnarn, trascinando il suo corpo con una macchina per le strade della città. Bassam ha visto tutto. Da quel momento credo abbia smesso di essere un bambino. È diventato un piccolo uomo terrorizzato- . Ah e la sua famiglia sono riusciti a scappare da Sirte verso Zawhia, nella parte occidentale del paese, a circa 50 km con la Iunisia « e la guerra ci ha seguito, un passo facevamo no e un passo faceva la guerra dietro eli noi. A Zawhla la famiglia di Ali è “‘1” asta intrappolata negli scontri tra milizie, mafie locali per il controllo dei traffici di carburante e di esseri umani. Era il 2015: -c’erano carrarmati In città. soarì, una notte una milizia ha assaltato Gasa nostra rubando il poco che avevamo. Bassam, che era già traumatizzato, da allora piange ogni giorno». Oggi Bassam ha otto anni e pesa a malapena 18 chili. L’anno scorso ne pesava 25. Non mangia. continua a perdere peso non dorme. Bassam e Kinan non hanno un solo giocattolo in casa. Nour, la mamma, è una giovane esile donna di venticinque anni. Un sorriso le apre il volto quando parla della Siria: “Quando potrò rivedere i miei genitori? Quando potremo tornare a casa?», chiede. con l’ingenuità di chi sembra non capire. Nour e i bambini non escono quasi mai di casa, hanno paura. Non ricevono aiuti, non ricevono supporto, Quelli come loro sono fuori da ogni dato, grafico, statistica. Non sono nei centri di detenzione gestiti dal ministero dell’Interno libico, non sor-o stati censiti dallo staff delle Nazioni Unite – che nor1 ha libertà di mobilità nel paese – non rientrano nelle liste eli attesa dei corridoi umanitari. Eppure, Ali, Nour e i loro figli stanno fuggendo da una guerra, non possono fare ritorno a casa, né possono – senza ausilio- continuare il loro cammino verso una vita migliore. Sono in trappola, e invisibili. Sono quelli come loro che riempiono i ~proclami di chi vorrebbe arginare il flusso migratorio dalla Libia gestito dai trafficanti: aiutiamo chi scappa dalle guerre, accogliamo chi ha diritto alla protezione internazionale e rimandiamo indietro gli altri dice chi divide le persone in fuga tra migranti economici e rifugiati. Ma se chi ha diritto alla protezione internazionale, se anche i rifugiati sono invisibili, se le loro richieste di aiuto restano inascoltate da anni, se sono incastrati il1 un paese controllato da milizie, se il paese in cui sono intrappolati non riconosce la convenzione di Ginevra sui rifugiati ,e ostacola il ” lavoro di chi dovrebbe garantire loro sostegno, cosa resta loro da fare?«Contattare i trafficanti, è la sola scelta che resta-, dice Ali, attento a non farsi sentire dai bambini, -Quando siamo riusciti a scappare qui a Misurata pensavo che le cose sarebbero un po’ migliorate, i traumi di Bassam sono violenti, non ho soldi per pagare le cure né per comprare da mangiare. Sono un padre e vorrei che i miei figli non soffrissero come ho sofferto io. Per questo voglio raggiungere l’Europa. Se la Libia non fosse un paese così pericoloso resterei qui, ma in Libia stiamo soffocando, è la nostra prigione ». Ali ha perso le speranze di tornare in Siria, non vuole più avere notizie dei morti nel suo paese, non vuole nemmeno ascoltare le notizie dei morti in mare, perché – dice – “forse uno di questi giorni quei gommoni toccheranno a noi, e devo poter credere che possiamo arrivare tutti vivi ,all’altra parte».