Giuseppe Conte La Libia brucia. E così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte – tra una rinuncia forzata a un concorso universitario e la complicata mediazione quotidiana tra i vicepremier Di Maio e Salvini in lotta costante per la supremazia – ha dovuto capitolare. A fine agosto, ben prima di quanto sperasse, ha dovuto mettere in cima alla lista delle priorità due questioni che il governo pentaleghista aveva rimandato: la crisi libica, appunto, e il rinnovo dei vertici dei nostri servizi segreti, su tutti quello dell’Aise.
Due dossier strettamente legati tra loro, e cruciali per la diplomazia estera, la sicurezza interna e la politica energetica prossima ventura. In Libia l’Italia concentra enormi interessi: quelli economici, legati al petrolio e al gas dell’Eni e alle commesse industriali per un valore complessivo di decine di miliardi di euro; e quelli geopolitici, visto che nel deserto dell’ex colonia si gioca la partita dei flussi migratori e il futuro posizionamento strategico del nostro paese nel Maghreb.
Il governo si è reso conto, forse con ritardo, che a Tripoli la situazione è precipitata. Il debole esecutivo di unità nazionale guidato da Fayez Sarraj, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’Onu, si sta sbriciolando sotto i colpi della sua stessa inconsistenza politica, della corruzione e della guerra civile tra le varie milizie locali, che hanno in questi anni protetto il presidente in cambio di denaro e di mani libere su ogni tipo di traffico illecito. Di armi, petrolio, droga e migranti.
Ma Sarraj, soprattutto, paga l’opposizione dura di Khalifa Haftar, l’ex generale dell’esercito di Gheddafi e numero uno del governo ribelle di Tobruk. Il suo esercito controlla la città di Bengasi e tutta la Cirenaica, la parte est del paese, ed è alleato con alcune brigate che ormai assediano la capitale. «È chiaro a tutti che Haftar sta vincendo il braccio di ferro con Sarraj. L’Onu ha ottenuto un flebile cessate il fuoco la scorsa settimana trattando direttamente con i capi delle bande, ma è probabile che – senza interventi militari dall’esterno – Tripoli possa presto cadere», chiosa una fonte dell’intelligence che lavora da anni sul territorio. «Il problema ora, per l’Italia è che Haftar ci considera dei nemici, se va bene dei doppiogiochisti poco affidabili. Ha fatto bene il ministro degli Esteri Moavero Milanesi ad andare da lui e riallacciare i rapporti. Ma temo sia una mossa fuori tempo massimo».

La malavita controlla i porti, il petrolio e i commerci illegali. Mentre Usa, Francia, Italia e Regno Unito ora dicono di condannare le stesse forze a cui per anni si sono affidate

Se i governi Monti, Renzi e Gentiloni hanno puntato – almeno fino al 2016 – tutte le loro fiches su Sarraj, l’Egitto di Al Sisi, la Russia di Putin e soprattutto la Francia di Macron appoggiano Haftar politicamente e militarmente da tempi non sospetti. E adesso contano, se diventasse lui il leader di una Libia stabilizzata, di diventarne interlocutori privilegiati. Che era l’obiettivo principale che i francesi si sono prefissi nel 2011, quando “imposero” la guerra contro il regime di Gheddafi per rovesciare il suo regime e limitare al minimo l’influenza italiana nel paese.

Successi o fallimenti?
Di Maio e Salvini si sono convinti, a torto o a ragione, che la crisi del governo tripolitano, gli scontri tra le milizie e i colpi di mortaio che hanno sfiorato l’ambasciata italiana dimostrino il fallimento complessivo della strategia usata dai vecchi governi, dalla Farnesina e dal capo dell’Aise, il generale Alberto Manenti. Anche dal ministero della Difesa, guidato da Elisabetta Trenta, sono d’accordo con l’analisi: bisogna cambiare tutto. «Velocemente. Strategie politiche e di intelligence. Siamo stati assenti in Cirenaica. Pure nel Sud della Libia e nel Niger i servizi segreti francesi e le ong transalpine a essi collegati sono molto più attivi di noi. Hanno creato consenso tra i capi tribù e le popolazioni locali», aggiungono dal gabinetto di Conte.
La partita delle nomine all’Aise e al Dis, guidato dal prefetto Alessandro Pansa, sembra dunque stia arrivando a conclusione. Se l’attuale numero uno fa pesare ancora i suoi rapporti con gli apparati interni ed esterni (la Cia di Gina Haspel e dell’ex Mike Pompeo, attuale segretario di Stato di Trump) sperando di poter avere voce in capitolo sulla sua successione, il premier – che ha tenuto finora per sé le deleghe sui servizi – e i mammasantissima del M5S stanno analizzando il profilo giusto per il cambio della guardia.
Anche Salvini e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti sono concentrati sulla pratica. Perché quello che accade in Libia ha conseguenze dirette sul successo o meno delle politiche del Viminale sull’immigrazione, in primis. Perché la Lega e Giorgetti sono da sempre assai attente ai destini delle imprese che lavorano a stretto contatto con l’intelligence (Leonardo su tutte), e ai relativi business delle commesse. Ma anche perché l’idea che possa essere Macron a dettare legge al di là del Canale di Sicilia preoccupa, e non poco, il capo del Carroccio.
È noto che in pole position per la poltrona di Manenti ci siano due nomi: ossia l’attuale vice, Giovanni Caravelli, e il numero due del Dis, l’ex poliziotto Enrico Savio. Ma non è detto che la gara, su cui metterà la sua lente anche il Quirinale, non possa essere vinta da un terzo incomodo, una figura superpartes che possa mettere d’accordo le fazioni che si combattono dentro i nostri apparati.
Andiamo con ordine, partendo dal contesto attuale. Finora i piani italiani in Libia si sono incardinati sulla fedeltà indiscussa al governo di Sarraj, sulle capacità diplomatiche della Farnesina (dove, a parte i ministri che si sono succeduti, ha grande influenza il segretario generale Elisabetta Belloni, burocrate di grande esperienza e molto stimata da destra, sinistra e soprattutto dal presidente Sergio Mattarella), e sulle strategie messe in piedi dall’ex ministro degli Interni Marco Minniti e dal suo uomo a l’Avana, Manenti.
Fonti di Forte Braschi evidenziano come l’ex ministro Minniti abbia assegnato in via esclusiva, con delega scritta, la gestione del dossier libico al generale con natali libici (Manenti è nato Tarhuna e parla correntemente l’arabo). E ricordano pure che quest’ultimo ha, a sua volta, affidato al vice Caravelli la direzione operativa sul campo.
Questi gli unici fatti su cui tutti i nostri 007 concordano. Il giudizio sui risultati finali della strategia, invece, spaccano a metà le agenzie e gli addetti al lavori, divisi tra coloro che promuovono l’azione degli spioni e altri che danno valutazioni negative. Persino drastiche.
L’inner circle dei vertici dell’Aise, amareggiato dalle critiche grilline e leghiste e dai malumori interni, sta mostrando da mesi a Palazzo Chigi i successi ottenuti a partire dall’estate del 2017 (con il crollo dell’80 per cento degli sbarchi) e l’utilità del rafforzamento della Guardia costiera libica. Non solo. Se è vero che Manenti ha riallacciato da almeno due anni rapporti ufficiosi anche con Haftar, a marzo 2017 proprio il direttore, insieme a Minniti e Caravelli ha portato a casa un accordo di pace tra una sessantina di tribù del Fezzan, la regione meridionale della Libia nella quale clan tebu, awlad suleiman e tuareg si combattono da lustri. Un accordo voluto per tentare di bloccare, fin dall’origine, il flusso dei migranti africani che arrivano in Libia dal confine con il Niger, principale punto di accesso dei disperati e dei rifugiati.
Un progetto ambizioso a cui partecipò in chiave molto attiva anche Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo mandato via dai servizi insieme ai suoi uomini dopo lo scandalo Consip. De Caprio, l’allora suo capo Manenti e lo stesso Minniti si affidarono anche alla mediazione della Ong Arapacis Iniziative, animata da Maria Nicoletta Giarda. Il patto era basato sul più semplice degli do ut des: l’Italia garantiva investimenti economici (in primis sull’aeroporto di Sebha, città cruciale della zona meridionale della Libia) e la nascita di attività economiche in grado di rimpiazzare le entrate derivante dal traffico di uomini; in cambio le tribù si impegnavano a fermare le proprie attività illecite e controllare insieme il confine.
Tutti contro tutti
Alcuni settori dei servizi e alcuni esponenti del governo, contestano però il piano Minniti-Manenti e la bontà dei risultati raggiunti. Che la tensione sia alle stelle lo dimostra l’apparizione improvvisa di foto che ritraggono muri di alcune strade (di Tripoli?) con slogan contro i vertici dei nostri 007 («generale Gianni Caravelli e servizi segreti italiani, uscite dalla Libia!»; «i servizi segreti italiani supportano i terroristi in Libia!», si legge in un arabo con qualche errore di ortografia). Nell’Aise sospettano che si tratti di un’operazione interna per infangare i vertici. Il social Twitter, intanto, ribolle da settimane di bandiere italiane calpestate e violenti attacchi al nostro ambasciatore Giuseppe Perrone, finito nel mirino di Haftar (e di una parte delle milizie filo Sarraj) quando a inizio agosto ha dichiarato, in una lunga intervista a Libya’s Channel, che nel paese non ci sarebbero ancora le condizioni di sicurezza per uno svolgimento normale e democratico di nuove elezioni.
«Con la rivoluzione ci siamo rialzati dopo 40 anni. Ma nel mio paese pesa l’eredità del dittatore». Parla lo scrittore premio Pulitzer Hisham Matar

Se Perrone potrebbe essere presto sostituito, e se il piano per il controllo del Fezzan sognato da Minniti e Manenti è di fatto rimasto lettera morta (la stessa Giarda ha ammesso al freelance Giacomo Zandonini che le condizioni poste dalle tre comunità non sono state ancora raggiunte, tanto che «i leader delle tribù dubitano sempre di più del reale intento da parte di Italia e Ue di fermare le migrazioni»), ci sono altre critiche ricorrenti alla gestione della crisi libica. Tra cui la mancanza di una strategia strutturale a lungo termine, e una limitata capacità operativa rispetto a quella di altre intelligence straniere, francesi e britannici (su cui spesso ci appoggiamo) su tutti.
C’è poi il tema dei presunti fondi investiti a Tripoli, a Mellitah, a Sabratha: nel governo più di un ministro interessato è convinto che le storie raccolte mesi fa in Libia da alcuni cronisti (dalla collega Francesca Mannocchi agli inviati del New York Times, del Guardian e de Le Monde) siano vere. Testimonianze che raccontano come l’Italia, per provare a fermare i flussi migratori che destabilizzavano la politica interna, abbia consegnato montagne di denaro a intermediari libici, poi finiti alle milizie e ai capi tribù. Sospetti che però Minniti, ufficialmente, ha smentito seccamente.
Oscuri, poi, restano alcuni rapporti che l’Italia avrebbe intrattenuto con soggetti chiacchierati come Ahmed Omar al Dabbashi, un trafficante di uomini segnalato nelle liste sanzionatorie dell’Onu, appartenente a una famiglia che ha garantito (dal 2015 fino a pochi mesi fa, quando gruppi militari vicini ad Haftar li hanno cacciati via) la sicurezza e la protezione del sito Eni di Mellitah.
Al netto delle polemiche etiche sui campi di prigionia e su presunti patti scellerati con i libici, l’intera strategia messa in piedi dal 2014 in poi, supportata da Minniti e dai consigli dei nostri 007, avrebbe via via perso l’originaria efficacia. Il governo è sicuro che l’attuale diminuzione degli sbarchi sia frutto della politica anti-Ong di Salvini e della chiusura dei porti italiani, e non del lavoro dei servizi o risultato dei vecchi accordi con le milizie del governo Gentiloni. Ecco perché Caravelli, considerato l’uomo della continuità e candidato principale alla direzione dell’Aise, potrebbe alla fine non farcela. Anche il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, che lo ha appoggiato finora senza se e senza ma (lo conobbe già due anni fa quando da professoressa della Link University provò a entrare, senza successo, nell’agenzia) sembra aver cambiato opinione.
Caravelli, che ha all’attivo operazioni delicate sul campo, leggendarie missioni all’estero come quelle in Afghanistan contro i terroristi talebani e i trafficanti di oppio, ed esperienze non solo al Sismi ma anche nell’Esercito (tornò nei ranghi militari nel 2007, prima di essere richiamato all’Aise da Manenti) ha molti nemici interni. Ma nell’agenzia anche questi ultimi lo preferiscono all’altro grande favorito alla poltrona di direttore. Cioè Enrico Savio.
Ex funzionario della polizia e uomo vicinissimo a Gianni De Gennaro (fu l’attuale presidente di Leonardo a chiamarlo nel 2008 al Dis come capo di gabinetto), Savio ha un profilo diverso rispetto a quello di Caravelli. Pochissimi trascorsi operativi, ma molta scrivania (anche ai tempi della polizia) e ottimi contatti in politica, nelle imprese e in Usa, soprattutto nell’Fbi. «Come tutti quelli che non hanno svolto attività sul campo la domenica ama indossare la mimetica simulando combattimenti di soft air nei boschi», ironizzano coloro che non lo amano, e che sottolineano come sia stato lui a gestire, in prima persona, il progetto della nuova sede unica dei servizi a Piazza Dante a Roma. Savio dal 2009 in poi ha seguito passo passo i lavori di ristrutturazione dell’immobile, assegnati alla Cmc di Ravenna: i conti della spesa sono segreti, ma i costi di adeguamento rischiano di superare i 200 milioni di euro. «Una cifra altissima, soprattutto se il palazzo non potrà svolgere la funzione, tanto pubblicizzata, di sede unica dei servizi: l’Aise ha detto di voler restare a Forte Braschi, l’Aisi ha avvertito che manderà una piccola rappresentanza, il Dis ci entrerà a malapena».
Savio ha ipotizzato a Conte che il taglio del nastro potrebbe essere festeggiato già entro la fine dell’anno, e pure Salvini e Di Maio si stanno convincendo possa essere davvero lui l’uomo giusto al posto giusto. Altri lo vedono promosso, ma sulla poltrona di Pansa, suo attuale numero uno. «All’agenzia per la sicurezza esterna sarebbe meglio Luciano Carta, della Guardia di Finanza, o il generale Angelo Agovino dei Carabinieri», ipotizza qualche consigliere di Palazzo Chigi. Che non nega che Savio può godere del sostegno di Leonardo dell’amico De Gennaro, di Gianni Letta, dal Centro studi americani e di imprenditori di peso come Raffaele Boccardo di BV Tech.
Da sempre esperto nella gestione di finanziamenti, Savio ha pure un’esperienza da manager (e socio) della società privata “Sicurezza Italia”: uscito dalla polizia, nel 2006 deteneva il 5 per cento delle quote della srl. Il suo nome e quello degli altri azionisti scompare qualche anno dopo: la società, prima di fallire, risulta avere avuto dal 2008 in poi come unico azionista una holding lussemburghese, la holding Seteco International, i cui soci non sono noti.
Assunto al Dis, la carriera del candidato ha continuato a marciare spedita anche con l’arrivo al dipartimento di Giampiero Massolo. Savio ha avuto carta bianca per realizzare il Polo Tecnologico dei servizi, le cui competenze sono state assegnate proprio al Dis a scapito di Aise e Aisi. Leggenda vuole che l’attuale vicedirettore abbia scelto non solo il “cyber-zar” del Dis, il professor Roberto Baldoni, ma tutto il resto della squadra, un team che dovrebbe vigilare anche su presunti troll e bot (russi?) che influenzerebbero, attraverso falsi profili social, l’opinione pubblica italiana. Ma Savio sta indagando con i suoi uomini anche sull’origine del tweet storm contro Mattarella, su cui la procura di Roma ha aperto un’inchiesta. Salvini e Di Maio decideranno prestissimo. Chiunque prenderà il posto di Manenti, dovrà lavorare sodo: la Libia brucia, e l’Italia ha tutto da perdere.