Il militare è accusato dell’uccisione di 33 jihadisti. L’Italia dopo il finto arresto: «Sia processato»

L’ultima volta, non gli è bastato ammazzarli. Ha chiamato una piccola folla davanti alla moschea Bi’at al-Radwan di Bengasi, dov’erano esplose due autobombe. Poi ha fatto portare dieci jihadisti, tutti nella divisa azzurra dei carcerati. Li ha bendati, mani e piedi legati. Li ha messi in ginocchio, uno di fianco all’altro. E uno dopo l’altro li ha uccisi con un colpo alla fronte, tra applausi e grida d’approvazione. Alla fine, ha guardato orgoglioso nella videocamera che lo riprendeva: «Questa è la mia legge. Se loro faranno nuovi attentati, io farò fuori altri terroristi. Qui, davanti a tutti. Voglio vedere se provano a processarmi per questo». A provarci è la Corte penale internazionale, che qualche giorno fa è tornata a chiedere il suo arresto: l’ufficiale Mahmoud Mustafa Busayf al-Werfalli, 40 anni, ex gheddafista oggi a capo di cinquemila uomini delle forze speciali nell’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar, è accusato dell’esecuzione sommaria d’almeno trentatré terroristi dell’Isis, d’Al Qaeda e d’Ansar al-Sharia. Sui social ci sono sette video terribili che raccontano altrettanti episodi, postati fra il giugno 2016 e il gennaio di quest’anno. Quanto basta perché la procuratrice gambiana al Tribunale dell’Aia, Fatou Bensouda, si rivolga al Consiglio di sicurezza dell’Onu e inserisca al-Werfalli nei red alert dell’Interpol: «L’epoca dell’impunità in Libia deve finire — scrive la magistrata —. Possiamo scoraggiare nuove atrocità solo dimostrando d’applicare la giustizia». Angelo sterminatore o macellaio di Bengasi? Terrore dei terroristi o solo un feroce Arkan della Cirenaica? Idolo e demone, protetto da una Libia spiccia che ricorre volentieri alla guerra senza scrupoli, rincorso da un tribunale scrupoloso che persegue i criminali di guerra, forse di al-Werfalli non si parlerà ufficialmente alla prossima conferenza internazionale di Palermo sulla Libia. E nessuno chiederà a Haftar perché abbia prima finto di arrestarlo e poi in pubblico ne abbia difeso le gesta («questo è un caso nazionale — ha detto — e la nostra nazione è più grande di qualunque tribunale»). Ma la questione è aperta, va oltre la crisi libica e riguarda più in generale la guerra al terrorismo: fino a che punto, qui come in Siria, si può coprire chi ne usa gli stessi metodi? «Quest’uomo è un eroe, un salvatore e un simbolo dell’Operazione dignità lanciata da Haftar — dice in un video un sedicente Gruppo d’amici di al-Werfalli —. Se lo processate perché ha ucciso i jihadisti, dovete fare lo stesso con tutti i militari che li stanano e li bombardano». A Bengasi, sono stati organizzati due blocchi stradali per chiederne l’impunità. E mentre Haftar riceveva nel quartier generale di Rajma l’inviato dell’Onu, Ghassan Salame, i suoi uomini simulavano le manette ai polsi di al-Werfalli e in realtà lo sistemavano in una comoda villa di Marj, pochi chilometri dall’ufficio del generalissimo della Cirenaica. In questi giorni, al-Werfalli è stato visto a spasso per Bengasi. E domenica scorsa il soldato che aveva filmato le esecuzioni, guarda un po’, è stato arrestato prima che andasse a testimoniare a L’Aja. «Al Werfalli va processato perché le sue azioni sono eccezionalmente crudeli, disumane e degradanti», scrivono i magistrati. «Non lo consegniamo — promette un portavoce di Haftar —, perché la nostra giustizia sarà comunque ferma e severa». Più che ferma, immobile.