L’ANALISI

Sicurezza e stabilità in Libia, ripresa dell’iniziativa italiana, rafforzamento dell’azione dell’Onu. Dei tre obiettivi che si prefiggeva l’Italia a Palermo, solo il secondo sarà raggiunto. Ma non è scontato che sia un bene. Eppure la Libia è strategica per noi, sia per la potenziale minaccia terroristica, sia per l’instabilità dei flussi migratori. Il governo ha valutato l’eventualità di rinviare la Conferenza e concluso che si trattava di un impegno ineludibile: a questo punto il rinvio sarebbe stato peggio del fallimento. Sulla faticosa trattativa libica condotta con l’avallo delle Nazioni Unite e sotto la guida dell’Italia, pesano la litigiosità delle fazioni l’un contro l’altra armate nella stessa città, nello stesso quartiere, si direbbe nella stessa oasi. E pesano i contrastanti interessi di potenze regionali ed europee schierate vuoi con il maresciallo Haftar, signore della Cirenaica, vuoi col premier del governo di accordo nazionale Serraj. Più gli altri: le milizie di Misurata, di Zintan, le tribù del Fezzan Pesa la competizione tra Italia e Francia, la lotta di tutti contro tutti per il gas e il petrolio. La National Oil Company (Noc), la compagnia petrolifera nazionale di fatto l’unica istituzione sopravvissuta allo sfascio del Paese dopo la sciagurata guerra del 2011, è sotto attacco delle bande e si barcamena nel tentativo di garantire un’equa distribuzione dei proventi.

LA MISSIONE

Dopo il vertice di Parigi del luglio 2017, l’Italia ha cercato di riafferrare il timone. Ma tutto dipende dalla scelta di Haftar se volare o no in Sicilia. Una delegazione italiana ha cercato di convincerlo l’altra sera. Invano. Ieri una missione del maresciallo è atterrata a Palermo per tastare il terreno. Forse non tutto è perduto. I libici ci hanno abituato alle entrate teatrali, alla suspense e ai colpi di scena. Gheddafi era capace di convocare centinaia di giornalisti da tutta Europa, tenerli prigionieri per giorni in albergo a Tripoli, trasferirli in un centro congressi dove tutto era pronto compresi gli interpreti nelle cabine, e alla fine incaricare il suo portavoce di dire che il Colonnello aveva cambiato idea: tutti a casa. Nelle visite di Stato Gheddafi si materializzava come un miraggio nel deserto, nel suo variopinto mantello da beduino. Il protocollo libico rivoluzionava ogni volta il programma.

LE DELEGAZIONI

E insomma, non si può mai sapere se il Maresciallo farà la sua apparizione spettacolare. Ma che ci sia o no, nessuno si aspetta da Palermo la soluzione delle soluzioni: la sicurezza resta aleatoria, le milizie in armi, l’inviato speciale dell’Onu Ghassan Salamé alla ricerca di un percorso credibile verso elezioni che l’Italia vorrebbe precedute da un accordo e ordinate, la Francia immediate e senza condizioni. A Palermo le delegazioni si saranno forse confrontate (ma a parte gli africani, neppure Macron, tanto meno Trump o Putin ci saranno). E il nostro ambasciatore da agosto non va in Libia, congelato dalle proteste di Haftar per quello che considera uno sbilanciamento a favore di Tripoli. L’Italia c’è, convoca i protagonisti, negozia, offre rinfreschi, paga voli e alberghi, riserva stanze per i bilaterali, redige documenti in diplomatiche se replicando all’infinito le cosiddette norme di linguaggio. Ma la pax libica è tuttora lontana, le posizioni restano distanti. L’Italia annaspa, la Francia incalza e i libici, che potrebbero essere tra i più ricchi del continente, aspettano la quadra che li faccia rinascere: la spartizione accettabile delle risorse. A Palermo l’unico risultato sarà la conferenza in sé. La domanda è: sarebbe stato preferibile evitarla per non dover registrare un insuccesso?