Per tutti è l’uomo forte della Cirenaica perché tiene in mano le redini dell’Est della Libia, guidandola come una realtà distinta dalla Tripolitania di Sarraj. Ed è il profondo dissidio nei confronti del presidente del Governo di accordo nazionale (l’esecutivo riconosciuto dall’Onu) che ha tenuto in sospeso sino all’ultimo la presenza del generale a Palermo. Specie dopo le evidenti (e provocatorie) convergenze del numero uno del Consiglio presidenziale di Tripoli con la Fratellanza musulmana, considerata dal feldrnaresciallo un’associazione terroristica come Al Qaeda. E che vede esponenti di spicco in Fatlai Bishaga, il misuratino «non moderato” che Sarraj ha voluto alla guida degli Interni, e Khalid AlMishri il capo del consiglio di Stato. Per Haftar non solo sedercisi accanto era inaccettabile, ma la loro presenza inficiava il buon esito dell’intera conferenza siciliana, come spiega Alial-Saidi, esponente del Parlamento di Tobruk e deputato vicino sii generale. A Palermo ci sono persone che hanno contribuito alla distruzione della Libia, ha detto abbandonando i lavori anzitempo. Il generale alla fine in Trinacria è sbarcato, ma dopo aver tenuto in scacco l’intera macchina organizzativa: basti pensare alla missione »persuasiva» del capo dell’Aise Alberto Manenti a Mosca, dove si trovava Haftar in visita, o alla maratona negoziale di domenica a Bengasi da parte di una task force italiana. O la promessa di improvvisare un vertice parallelo ristretto pensato ad hoc per convincere Il generale, e la spola di voli tra Bengasi, Roma e Palermo che ieri hanno attraversato i cieli del Mediterraneo. Oltre alle triangolazioni telefoniche di Palazzo Chigi con i partner internazionali. Comunque vada Haftar ha fatto parlare di sé più che del vertice o della Libia, così come era accaduto ad aprile quando lo si dava per spacciato in un letto di ospedale a Parigi, salvo «resuscitare» in una telefonata con Ghasaan Salamè, l’inviato Onu per la Libia. Sembra che allora avesse riparato in Francia per sfuggire alla minaccia di attentati che avevano già colpito alcuni stretti collaboratori. Uno dei tanti colpi teatrali di un uomo dal vanto di poteri forti ma avvolto da un alone di mistero che ne ha cadenzato tutta l’esistenza. Haftar è nato nel 1943 ad Ajadbiya, Est libico, e ha partecipato al colpo di Stato che ha rovesciato il re ldris nel 1969, in favore di Muammar Gheddafi. Il Rais di Tripoli lo fa così capo del suo Esercito che conduce nella guerra contro il Ciad, salvo essere scaricato dal colonnello stesso dopo la sua cattura da parte delle truppe appoggiate dai francesi. Il generale gli giura vendetta, pianificandola durante gli oltre 20 anni trascorsi in esilio negli Usa, domiciliato a pochi passi da Langley, il quartier generale della Cia. È la vicinanza con l’intelligence Usa a preservarlo da esule sino al ritorno in patria con la caduta di Gheddafi nel 2011. Si ripropone nella veste di antijihad determinato a liberare Bengasi e l’Est dall’onda islamista guidata da Ansar al Sharia. Nel 2014 lancia l’«operazione dignità», e nel 2016 «SwiftThunder”, per conquistare i terminal della mezzaluna petrolifera sotto il controllo di forze filo Sarraj, col quale si mette in contrapposizione, così come si oppone agli accordi Onu di Skhirat. Il rapporto con l’Italia è sofferto, ostile, come dimostrano le tante visite dell’ambasciatore Giuseppe Perrone a Bengasi. E la richiesta da parte di Haftar di un ritorno immediato del diplomatico a Tripoli dopo il richiamo forzato a Roma per gli attacchi di questa estate sulle elezioni. Nulla di personale, spiega Saidi per conto del generale: «Perrone ha dovuto sostenere posizioni mimposte dal governo italiano, in questo senso abbiamo mosso critiche nei suoi confronti per colpire l’esecutivo».