Tripoli. Aza si sveglia alle cinque, ha affidato i suoi cinque bambini alla vicina di casa e si è messa in cammino. Quando però è arrivata sull’ex piazza Verde dei tempi di Gheddafi – oggi piazza dei Martiri – davanti alla sede della sua banca, la Banca commerciale, ha trovato già diverse centinaia di persone in fila. Eppure l’annuncio era stato pubblicato sulla pagina Facebook dell’istituto in tarda serata. Ma come sempre il tam tam era stato implacabile. «Si avvisa la spettabile clientela che domani, 7 novembre, si potrà prelevare denaro in contanti fino a un massimo di 500 dinari» c’era scritto. Alle 8 i clienti in attesa sono già due, forse tremila, incollati l’uno alle spalle dell’altro. È una fila che si allunga per qualche centinaio di metri, facendo impazzire il traffico. A destra stanno gli uomini, a sinistra le donne. Ci si spintona, si rla, gli anziani si accasciano a terra. Aza, che soffre di crisi di panico, preferisce evitare la calca delle prime file. «L’ultima volta che ho potuto ritirare del contante è stato il 19 agosto» ci dice: «Sempre 500 dinari, meno di 100 euro. E con quei soldi abbiamo dovuto tirare avanti, in sette, per quasi tre mesi». «Quello del contante è un incubo» aggiunge Hussen. «È il primo dei problemi, oggi, per noi libici. Gli stipendi pubblici non vengono pagati con regolarità e la gente non può nemmeno prelevare dal suo conto perché le banche non hanno soldi. È uno scandalo». Per tamponare la crisi di liquidità è la Banca centrale libica che, sia pur a singhiozzo, provvede a rifornire i singoli istituti di credito. Ma il denaro si perde nei mille rivoli della corruzione e dell’arbitrio. «La fetta più grossa va alle milizie che fingono di occuparsi della sicurezza delle banche» ci spiega Hussen: «Poi vengono i loro parenti e gli amici, infine gli impiegati della banca. Ai clienti restano solo le briciole. Vedrai, molti di quelli che sono qui in fila resteranno a mani vuote». «Mi è già successo» ammette Aza, «e sono tornato a casa con le lacrime agli occhi. Senza contanti devi solo sperare che i commercianti ti facciano credito: che accettino gli assegni o le nostre carte di debito. Ma i prezzi sono più alti, anche del 30 per cento». Sono ormai le cinque di pomeriggio e in fila ci sono ancora mille clienti, spossati dall’attesa e sempre più nervosi. Quando all’improvviso i miliziani fanno quadrato per chiudere il portone della banca – evidentemente i soldi sono finiti – sono le donne a sommergerli di urla e a spingere dalla disperazione. I cordoni vacillano ma tengono, le donne però si rifiutano di andar via senza la promessa che domani ci sarà una nuova distribuzione e loro saranno le prime. Alla fine cedono. Sta calando il buio e la notte a Tripoli è meglio restare a casa. «La guerra di settembre è un brutto ricordo» dice Adnan, un commerciante della piazza, «e nessuno si azzarda a uscire con la famiglia. Se ti imbatti nel posto di blocco sbagliato, il minimo che ti può capitare è che ti rubino la macchina. E se protesti, finisce male».

La guerra di settembre. Così la chiamano tutti, ma in realtà è iniziata ad agosto, il 22, quando i miliziani della Settima brigata di Tarhuna si sono ammassati alle porte di Tripoli scontrandosi con gli uomini della Brigata rivoluzionaria di Tripoli (Trb). «Dicevano di voler liberare la città dalla corruzione e dallo strapotere delle milizie» dice il maggiore Lofti Al Haray, che ha guidato la controffensiva nel quartiere di Abu Salim, «ma era solo una scusa, volevano una fetta di potere, anzi lo volevano tutto». I combattimenti, che hanno via via coinvolto tutte le milizie, sono durati diverse settimane e hanno lasciato sul terreno 50 morti, in gran parte civili. Adesso c’è una tregua, che sembra reggere, almeno di giorno, tant’è che in giro non si vedono né checkpoint aggressivi né armamenti pesanti. Di notte invece capita ancora di sentire l’eco di qualche scontro nei quartieri di confine. «Ogni milizia è trincerata nella propria zona» continua Adnan, «e si evitano il più possibile gli incontri ravvicinati. Si aspetta di capire». Il nuovo re di Tripoli si chiama comunque Haitham Tajouri, il capo delle Trb. Sono i suoi miliziani in divisa nera e blu, in apparenza gentili,  a controllare il centro della città e i suoi principali business, prima fra tutti quello della sicurezza attorno alle banche. In divisa nera, quasi tutti con la barba salafita, si presentano invece gli uomini di Abdul Rauf Kara, il leader islamista delle Special Deterrence Forces (rada), che hanno il loro quartier generale nell’aeroporto di Mitiga, l’unico funzionante, e ne controllano tutti gli affari. Ad ovest invece, nella zona commerciale di Grgaresh, si sono attestate le milizie della città-Stato di Zintan, sloggiate dalla capitale nel 2014, dopo una sanguinosa battaglia. A sud e a est, infine, restano quelli della Settima brigata e i loro potenti alleati di Misurata, la città martire della rivoluzione contro gheddafi che ha sempre avuto delle mire egemoniche su Tripoli, da cui i suoli miliziani sono stati allontanati a prezzo di sanguinosi combattimenti nel 2013.«Oggi più che mai Tripoli è la Libia» sostiene il vice sindaco Ibrahim Arebi, «Con gli sfollati arrivati dal sud e dall’est siamo a quasi due milioni di abitanti, su una popolazione totale di 6 milioni e mezzo. Chi controlla la capitale ha in mano il Paese». Quanto allo strapotere delle milizie, il suo giudizio è lapidario. «Ci si dimentica che tutte le milizie sono stipendiate dal nostro ministero degli Interni. È la politica dunque che le protegge, Ed è colpa della politica se a Tripoli non c’è più sicurezza». I tripolini in realtà sembrano assuefatti. All’assenza di uno Stato vero, in grado di imporre la legalità, così come alla corruzione, alla violenza e ai soprusi. C’è stato un tempo, fra il 2012 e il 2013, in cui nel centro di tripoli, in piazza Algeria si tenevano dei sit-in della società civile in cui si chiedeva a gran voce il disarmo delle milizie. Adesso invece nessuno più osa, «E come si fa?» insorge Walid, piccolo imprenditore: «Se ci tieni alla tua famiglia ti conviene star zitto. Vivi, se ci riesci, e lascia vivere. Così si ragiona». Nessuno protesta nemmeno per i black-out cronici della rete elettrica – due, a volte tre ore al giorno – oppure la penuria di carburante, che costringe spesso a lunghe file davanti ai distributori: un paradosso in un paese che galleggia sul petrolio. Ma dalla caduta di Gheddafi, nel 2011, l’estrazione del greggio è penalizzata dall’insicurezza politica e militare, oltre che falcidiata dal contrabbando: a giugno la Noc, la compagnia petrolifera di Stato, ha denunciato perdite per 70 milioni di dollari al giorno, per il petrolio che si perde o viene commercializzato illegalmente. Per questo le casse dello Stato, che dipendono all’80 per cento dalla rendita petrolifera, sono vuote. «Ci siamo abituati ad una economia di sopravvivenza parallela» dice Hussen: «Qui ognuno ha un doppio o triplo lavoro per sopperire agli stipendi che non vengono versati. E tutti fanno affari. Al mercato nero della valuta o nel commercio». Intanto negli ospedali manca tutto e per essere curati i pazienti devono portarsi sia le medicine che le garze e i ferri per le operazioni. Il cugino di Hussen, Amed, è morto perché il bisturi usato per operarlo era un po’ arrugginito.