«Saif al Islam intende partecipare al Forum nazionale libico che l’inviato dell’Onu Ghassam Salame intende organizzare già per gennaio prossimo. Una grande assemblea di riconciliazione mirata a preparare le elezioni politiche, che dovrebbero aver luogo entro la primavera del 2019. È un cittadino libico, dal 2011 non ha mai abbandonato il nostro Paese. Ha ogni diritto di concorrere per forgiarne il futuro». Il messaggio del principale erede politico di Muammar Gheddafi arriva forte e chiaro. «Non sono morto, come falsamente asserisce qualcuno. E neppure mi ritiro nella clandestinità e la fuga. Tutt’altro. Noi Gheddafi siamo stati estromessi ingiustamente dall’intervento militare della Nato e da forze illegali, che se non fosse stato per i raid stranieri avremmo facilmente battuto. Ma so che larga parte dei libici non ci hanno dimenticato. Anzi, se i primi anni seguiti al 2011, specie dopo le aspettative create dalle elezioni del 2012, non ci erano particolarmente favorevoli, adesso la situazione è radicalmente cambiata. Oggi sento che gran parte del Paese sta con noi e ricorda con nostalgia l’ordine e le riforme specie del primo decennio del nuovo millennio», ci fa sapere tramite il team di suoi consiglieri politici e ufficiali del vecchio regime che abbiamo incontrato a Roma, dove loro cercano di riprendere contatti e proporre soluzioni nella convinzione che proprio l’Italia potrebbe dare una mano. In contemporanea sono stati intavolati canali di comunicazione con i vertici europei a Bruxelles e con le Nazioni Unite. Per la prima volta dalla sua cattura nel novembre di sette anni fa da parte delle milizie di Zintan, in pieno deserto presso il confine col Niger, il figlio più «politico» del Colonnello barbaramente linciato a Sirte parla con la stampa occidentale. Parla attraverso i suoi uomini di fiducia, un nutrito gruppo di fuoriusciti, tutti reduci di traversie avventurose dopo la caduta del regime, che ora vivono appartati in varie località europee e del Medio Oriente. Con Saif, rimasto discretamente e vivere in una zona appartata attorno a Zintan, sono in continuo contatto. «C’è un evidente problema sicurezza. Saif è attento. Nel 2016 i giudici del tribunale di Zintan lo hanno liberato sulla base della legge di amnistia, però deve muoversi con cautela. Occorre lavorare anche per cancellare la delibera del Tribunale internazionale dell’Aia, che nel giugno del 2011 promulgò un mandato di cattura nei suoi confronti per crimini contro l’umanità. Era una accusa ingiusta, Saif aveva poco a che fare con le battaglie in corso, era invece un modo per fare pressione sul regime. La cancellazione del mandato di cattura internazionale non sembra impossibile, è già avvenuta per altri casi nel passato per personaggi in Africa e in Libia. Ma il cuore del suo messaggio resta quello che espresse durante l’intervista al Corriere della Sera nel 2011: riavviare il dialogo nazionale tra tutte le componenti della società libica. Allora proponeva elezioni libere monitorate dalla comunità internazionale. Non fu ascoltato e il Paese scivolò nel caos violento. Speriamo oggi sia diverso», spiegano. A loro dire il Forum tra libici in preparazione sotto l’egida delle Nazioni Unite potrebbe tenersi per esempio a Gadames, la città-oasi nella Libia occidentale presso il confine con Algeria e Tunisia. «Il posto è molto importante, un tema delicato. Occorre un luogo neutrale per evitare frizioni ulteriori o pretesti per non partecipare», dicono. Riunirsi a Tripoli potrebbe costituire un problema per Khalifa Haftar e i leader delle regioni orientali. E lo stesso sarebbe per Bengasi o Tobruk, dove quelli delle regioni occidentali potrebbero sentirsi in pericolo. Meglio dunque una località nel deserto, dove sarebbe più facile garantire il controllo e gli accessi. Appare scontato che il successore di Gheddafi intenda così preparare il terreno per la sua candidatura alle elezioni e diventare parte integrante della «riconciliazione nazionale» per uscire finalmente dal caos di una guerra mai davvero terminata.
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