Pubblicato su Italiani di Libia 4-2019

Ex Africa semper aliquid novi. “Dall’Africa giunge sempre qualcosa di nuovo”. Così scriveva circa duemila anni fa Plinio il Vecchio, dove per Africa intendeva, in particolare, il territorio della Libia.

Oggi, sebbene il Paese sia martoriato dalla guerra civile, vi sono ancora dei luoghi in grado di suscitare con il loro fascino storico e la bellezza naturale meraviglia e interesse. Uno di questi è certamente la remota valle del Messak Settafet[1] dove scorre il Mathendush, un  fiume fossile che si estende su un’area di 250 chilometri quadrati nel sud ovest della Libia, compresa fra l’altopiano pietroso dell’Hammada El Hamra, l’impervio altopiano del Messak Mellet[2] e l’Edeyen Murzuk, rifugio di Kaossen, leggendario condottiero targhi che dalle steppose lande del Damerghou[3] condusse fino alle oasi senussite del Gebel cirenaico la prima  rivolta dei Tuareg contro i francesi, con cannoni sottratti alle truppe italiane di stanza a Ghat.

La valle del Mathendush fu scoperta nel 1850 dall’esploratore James Richardson, seguito poco dopo dal naturalista Adolf Overweg e dall’archeologo Heinrich Barth; essi furono i primi europei ad ammirare i graffiti preistorici incisi sulle pareti di arenaria  dell’uadi[4] e dei suoi affluenti (fra cui il Bergiùg), riscontrando come questa valle  racchiuda segreti vecchi di diecimila anni.

Successivamente l’arte rupestre del Fezzan ha attratto molti studiosi (Leo Frobenius, Paolo Graziosi, Fabrizio Mori) ma In Italia la scoperta del Mathendush da parte del grande pubblico risale addirittura al 1983, in occasione di una mostra fotografica allestita durante il 26esimo Festival dei Due Mondi di Spoleto. L’esposizione includeva anche molti calchi originali prelevati dai petroglifi[5] della valle, circostanza che provocò non poco imbarazzo al nostro governo e a tutto il movimento archeologico italiano attivo nel Fezzan per le modalità con le quali i calchi furono prelevati.

Graffiti di gatti mammoni

Graffiti di gatti mammoni

Il controverso episodio, noto come il caso degli “Ihwan[6] Castiglioni” coinvolse anche il direttore Mori, incluso fra i sospettati e fu causa del blocco della ricerca archeologia nell’area per oltre un decennio. A seguito del duro braccio di ferro fra autorità libiche e italiane, fu nominata una commissione ispettiva libica per capire quali danni avesse provocato la resina usata per ricavare i calchi della mostra: a capo della missione fu messo l’amico del professore Mori Giumah Anagh, che mi invitò a partecipare al sopralluogo.

Sebbene mi  fossi già recato nel Mathendush insieme a Quarnafuda – la prima guida del dipartimento delle antichità di Tripoli – ed avessi anche visitato la mostra  spoletina, quel viaggio fu per me l’occasione di conoscere meglio “la valle della discordia “,così come era stata ribattezzata.

Uadi Im Aramas, In Kufar, Tilizagen, In Habeter, Tin Gobya, Anbritt, In Afuda, In Amellel, Intananait, Tiduwa, Alamas, Imrawen, In Elobu, In Galgwen: a più di un secolo e mezzo dalla loro scoperta è ancora pressoché impossibile descrivere o catalogare tutte le incisioni contenute nei ripari di queste vie fossili, molte delle quali raggiungibili esclusivamente a piedi. Sui  massi di questi uadi, diecimila anni fa, abilissime mani hanno tracciato splendide incisioni, alcune alte addirittura sei metri, con utensili e metodi ancora oggi sconosciuti.

Esse arricchiscono questo luogo unico attraverso la rappresentazione di personaggi mitici, intercessori fra il mondo animale e quello umano, rendendolo uno dei siti culturalmente più significativi del Sahara. Un luogo sacro nel quale, probabilmente, le popolazioni nomadi si riunivano per propiziarsi la clemenza di animali feroci e spiriti ostili.  A confermare questa tesi l’eccezionale numero di petroglifi, la loro concentrazione in prossimità dei punti in cui l’acqua era più abbondante e l’assenza di strumenti litici[7].  Secondo l’antropologo francese Jean-Loïc Le Quellec (autore della cartografia della valle e dell’inventario  dei  graffiti del Mathendush),  sulle pareti si ritrovano gli archetipi di alcune divinità ritratte con sembianze umane e zoomorfe[8] che occuperanno l’affollato pantheon della religione egiziana.

Sacralità evidenziata pure dalla intensa ieraticità delle figure femminili ornate di maschere elaborate, copricapi stilizzati, collane e bracciali attorno ai bicipiti[9], e “gonnellini” che ricordano gli indumenti del dio egizio Bes.

Particolare interessante è la rappresentazione dei due celebri felini conosciuti col nome di “gatti mammoni”. A guardarli sembrano piuttosto leoni stilizzati: Bes, infatti era ritratto con una testa leonina e proteggeva i defunti dagli spiriti del male.

Secondo questa teoria, dunque, la civiltà dei faraoni appare piuttosto di matrice africana che non originaria della “fertile mezzaluna”. È infatti riconosciuta l’influenza che i cacciatori-protocoltivatori sahariani ebbero sulla formazione dell’antico Egitto, giunti nella valle del Nilo dal progressivo inaridimento delle loro terre d’origine: l’Hoggar, il Tassili, il Mathendush.

L’arte rupestre di quest’ultimo luogo costituisce una delle più cospicue e originali  testimonianze sull’identità dell’uomo prima della comparsa della scrittura. Un luogo che si trova in  Libia che  da migliaia di anni avvolge e custodisce i segreti degli Dei di pietra del Mathendush.

Gianfranco Catania

 

[1] Massiccio nero

[2] Massiccio bianco

[3] Il fiume Niger

[4] Letto degli antichi corsi d’acqua che formano reti spesso assai complicate nel Sahara e in altre regioni desertiche

[5] Graffiti

[6] Fratelli

[7] Dal greco lithos, “pietra”. È l’insieme degli oggetti di pietra realizzati dall’uomo, modificando intenzionalmente dei ciottoli.

[8] Con corpo umano e testa di animale

[9] Usanza frequente nell’antico Egitto