Pubblicato su Italiani di Libia 2-2012

 

La Libia non è soltanto Tripoli, è un paese incantevole e di fatto incanta qualsiasi viaggiatore, figuratevi chi vi è nato come avverte la furia irresistibile del mal d’Africa che gli scorre nelle vene!  Così mi sono spinto fino alla stupefacente Gadames, utilizzando alcune amicizie di vecchia data.

Il Sahara è la regione desertica più grande del mondo e una delle più affascinanti. Con una superficie quasi uguale a quella dell’intera Europa che si stende di fatto fra le Sirti (le due insenature sabbiose sulla costa libica), l’interno della Tripolitania, gli sciotts della Tunisia e dell’Algeria. Sciott è il nome arabo dato alle conche lacustri e salate che si estendono nell’Africa settentrionale; si distinguono dai laghi per non avere sbocco al mare e dai grandi laghi salati perché non hanno il carattere duraturo di questi; in un tempo più o meno breve evaporano depositando i sali e presentandosi come una pianura nuda di colore bruno, cosparsa di pantani pericolosi. Il Sahara prosegue fino alle pendici meridionali dell’Atlante, alle coste occidentali della Mauritania e del Rio d’Oro, per seguire poco di lontano l’ansa del Niger, i dintorni del lago Ciad e toccare il Nilo nel Cordofan. A voler essere esatti esso, in questa sua sezione più orientale, non termina affatto ma continua, dopo la breve interruzione dell’oasi allungata del Nilo, nel deserto della Nubia e al di là della fossa del mar Rosso nella lunga, enorme fascia dei deserti asiatici, noto ovviamente con altri nomi ma dipendenti dalle stesse cause. Rispetto alla superficie dell’intero continente africano, il Sahara ne ricopre il 27 per cento. Il Sahara non è soltanto un enorme distesa di sabbia in cui il vento, non trattenuto né da vegetazione né da rilievi si sbizzarrisce ad accumulare e disfare, rifare e spostare dune di sabbia come onde dell’oceano.

Il territorio desertico non è piatto, ma vario e diverso: depressioni, conche, pianure, colli, monti, vulcani spenti, altipiani, valli disseccate, alvei fossili, caverne, simili in ossatura e forma alle conformazioni geografiche di tutto il mondo, ma quasi del tutto privi di vegetazione e di mantello erboso, brulli, con superfici rocciose spaccate, fessurate, triturate dagli sbalzi enormi delle temperature, spesso erose e levigate dal lavoro del vento e da quello roditore della sabbia rimescolata in una sorta di moto perpetuo. Il deserto del Sahara è dunque il regno della siccità e dell’erosione il cui primo effetto è la sparizione dell’acqua in superficie e il suo inabissarsi, ove ce ne sia, negli strati profondi, la riduzione dell’umidità, l’assenza di quasi ogni pianta e la fuga verso regioni meno desolate di quasi tutte le specie animali; quale effetto successivo si ha la denudazione delle rocce, che si spogliano via via delle loro assise superficiali, arse e disgregate dal sole del giorno e dal freddo della notte e smosse poi dal vento in ammassi di lastre, scaglie, pietre a punte ed orli taglienti. Nella zona delle dune, cioè dove il lavoro erosivo del clima è giunto a polverizzare la roccia in minutissima sabbia, diversa da quella dei nostri paesi e delle nostre spiagge, per effetto del Ghibli o del Simun, si ha il “mare senz’acqua” degli arabi, una superficie strana e bizzarra in cui si fanno e disfanno nel giro di poche ore i paesaggi collinari più diversi in cui è arduo procedere così come è facile perdersi. Avventurarsi nel deserto senza una guida esperta è assai pericoloso, a distanza si può scambiare una pietra nera con una tenda e si può girare delle ore intorno a una duna senza rendersene conto, la bussola non è molto d’aiuto se s’incontra un banco di sabbia ferrosa che inganna l’ago magnetico. I nomadi, loro hanno un portentoso senso d’orientamento.

Il fattore primario del deserto, quale accidente geografico della sfera terrestre, è il clima, ed esso è così asciutto e secco a causa dell’ubicazione astronomica delle aree desertiche. Infatti, sia il Sahara, sia la fascia dei deserti asiatici e americani e nell’emisfero australe dell’Africa il Calahari, si trovano nella zona del tropico del Cancro o del Capricorno e sono quindi sottoposti alle correnti aeree discendenti calde e secche, comprese fra la zona degli alisei e quella dei venti normali del nord o del sud. Tale stato di cose, indipendentemente dall’ipotesi dello spostamento dell’asse terrestre, ha fatto sì che quando l’Europa era coperta per due terzi dai ghiacciai pleistocenici, il Sahara fosse in condizioni ben diverse, cioè vivo e idrograficamente attivo. La sua altezza media è di 450 metri contro i 330 circa dell’Europa e si può quindi definire un altopiano, ricoperto da sedimenti marini o lacustri di varia età, diversamente dilavati, erosi e smossi da forze esogene. I monti e i colli di roccia, più che il carattere di vere catene, hanno quello di residui d’erosione, vale a dire di superstiti speroni di resistenza, mentre nelle sezioni più basse l’opera del sole e del vento ha contribuito ad abbassarle ancor più creando le note conche del Fezzan, del Ciad e altre, meno alte del paese circostante o addirittura a diversi metri sotto il livello del mare.

I vecchi corsi d’acqua scomparsi o le zone in cui la direzione degli strati di roccia più profondi permette l’arrivo di falde acquifere lontanissime, hanno creato e mantengono le oasi, zone di estensione variabile in cui compare o è facilmente raggiungibile l’acqua, il che significa la vita delle piante, degli animali e degli uomini, per la presenza delle palme e del sottobosco coltivato a cereali, a frutta, a ortaggi e pascolo. Dove c’è l’oasi vi sono animali domestici e da allevamento, mentre nelle sconfinate solitudini arse dal sole e irrigidite nella notte dal rapidissimo raffreddamento dell’aria e del suolo, non vivono che i dromedari nell’area africana e i cammelli in quella asiatica, meravigliosi attraversatori del deserto che possono vivere anche dieci giorni senza mangiare ma soprattutto senza bere. Da notare che assai difficilmente un essere umano potrebbe sopravvivere più di ventiquattro ore nel deserto senza bere e senza assumere sale. Eccezion fatta per i Tuareg, dei quali si dice – ma non so se sia vero – che abbiano una ghiandola speciale collocata nel collo che consente loro di resistere per più giorni in condizioni proibitive per qualsiasi altro uomo. Da giovane vissi quasi due settimane con gli uomini blu, ma è più esatto dire che sopravvissi, perché quell’esperienza fu così dura da persuadermi che, se non ero morto in quell’occasione, niente al mondo avrebbe più potuto farmi veramente male. Per la verità oggi, causa l’età e malanni di vario genere, un quarto d’ora sul dromedario si rivela sufficiente a provocarmi dolori lancinanti all’anca sinistra e alla regione sacrale scassate dall’artrosi. Per fortuna la Land Rover, a saperla usare, arriva quasi dappertutto. Nel deserto vivono pochi altri animali a dimora fissa, limitati però alle valli meno calde o alle zone più alte. I nomadi del deserto, Beduini, Tibbu e Berberi – questi ultimi abitanti autoctoni della Libia – sono ormai stanziali, eccettuati, forse in parte, i Tuareg. Il Sahara presenta interessanti fenomeni geologici e fisici e la sua storia remota è ricca di residui antropologici ed etnografici, ma soprattutto con i suoi nodi carovanieri (uno dei più importanti è costituito dall’oasi di Gadames nel deserto libico) e con le piste carrabili, per non dire delle assai meno affascinanti vie aeree, si allaccia da un lato al Mediterraneo e all’Atlantico e, dall’altro, a quella terra di grande e meraviglioso avvenire che è l’Africa centrale. L’oasi libica di Gadames, la perla del deserto, merita una menzione a parte. Situata a sud ovest di Tripoli, a circa 500 km dal mare e alla quota di 351 metri, questa straordinaria oasi, probabilmente la più bella dell’intero Sahara, è al confine tra Libia, Algeria e Tunisia e tale posizione fece sì che i legionari romani vi costruissero un presidio strategico per controllare i flussi carovanieri.

Gadames, a sud ha l’immensa Hammada el Hamra o Hammada rossa e occupa una conca del ciglione, all’incrocio di varie piste carovaniere e carrabili. Gadames, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, è infatti da sempre un punto d’incontro e di scambio, una sorta d’isola misteriosa, fatata, fiera e decadente, che conserva tracce di tutte le civiltà che si sono succedute nell’Africa mediterranea, da quella delle prime tribù libiche a quella dei legionari romani, dalla civiltà bizantina a quella araba. Il villaggio si sviluppa attorno all’Ain el Faras, la leggendaria “fonte della vacca”, ed è costituito da due agglomerati di cui uno alla periferia abitato da Arabi e un altro al centro popolato da Bèrberi. Difficile orientarsi nel labirinto dei vicoli, camminare a caso è il sistema migliore per chi voglia muoversi per una visita senza fretta tra le case bianche della città vecchia, fino alla parte molto suggestiva scavata nel sottosuolo per evidenti motivi d’isolamento dal calore diurno. Le moschee sono numerose e si riscontrano tracce bizantine più marcate che altrove, i minareti non sono facilmente accessibili, soprattutto agli “infedeli”: peccato, perché costituiscono uno splendido punto d’osservazione dell’intero agglomerato. Rispetto ai miei tempi esso si è ingrandito perché, adiacente alla città vecchia, ne è sorta una nuova; ciò ha consentito di non alterare minimamente lo stato urbanistico della parte antica. Se all’imbrunire ci si sposta di un paio di chilometri all’esterno dell’oasi, si può assistere al famoso tramonto sahariano, con l’enorme disco rosso del sole che scende rapido dietro le dune, reso ancor più spettacolare dall’intrico di palme che si staglia nel riverbero rossastro.  Di lì a poco ecco un’altra meraviglia quando le molteplici, luminosissime luci di un’enorme moschea rischiarano la fredda, incantata notte di Gadames a contrasto un poco insolente di un cielo blu cobalto pletorico di stelle, impensabile alle nostre latitudini.

Claudio Zappone