Articolo pubblicato sulla rivista Italiani di Libia
Scrutando a ritroso negli anni ’60, dei quali conservo i ricordi dei tempi trascorsi nella mia città natale di Tripoli, non è senza un sussulto nostalgico che vi racconto quello “spazio” della Medina Al- Gadima (Città Vecchia) esteso dalla fine di sciara Al- Quasc (Via dei Forni), sbocco del quartiere ebraico della Hara Al-Kebir (Hara Grande), fino al lungomare del porto dove il sole si rifletteva, come in uno specchio, sulla superficie, calma e piatta, del mare che a quello spazio aveva dato il nome: Bab Al- Bahar (Porta del Mare). Non è facile per un dilettante, passare in rassegna cronologica i pregiati reperti antichi e le opere recenti di 2000 anni di storia, racchiusi in questo spazio che ne fanno un Museo a cielo aperto, ma ci provo contando sul contributo delle immagini vecchie conservate nei cassetti, e nuove ricavate dalla tecnologia satellitare moderna, oltre che sulla vostra indulgenza laddove la precisione è mancata, sopraffatta dall’onda emotiva dei ricordi. Con questo racconto 50 anni dopo ritorniamo virtualmente nella Città Vecchia di Tripoli, ricca di reperti storici di epoca diversa, per soffermarci a Bab Al-Bahar dove, progressivamente in sintonia con la storia, si sono accumulati reperti antichi e passati (periodo ottomano e successivo) che esercitavano una grande fascino sui turisti.
Costoro, sollecitati da curiosità, o dal desiderio di apprendere, stimolato dallo spirito della cultura, a Bab Al- Bahar imparavano la storia avvalendosi di una guida umana o di una stampa per turisti “fai da te”. Allo stesso tempo si rilassavano tra i caffè e i ristoranti circostanti, dove scoprivano bevande popolari diffuse come il tè alla menta (sciai bil nanà), cibi tipici come il couscous, i burik, la shiakshuka (misto di ortaggi cotti), dolci intrisi di miele e i makroud (ripieni di marmellata di datteri), simboli di benvenuto in quella Libia indipendente dal 1951. Il Paese era allora proiettato nel futuro sotto la guida carismatica del Re Idris Al-awal ed erano evidenti i segni del trascorso periodo coloniale italiano concluso nel 1943, come quelli sparsi nel territorio di un lontano passato della civiltà romana a testimoniare i vincoli secolari tra Italia e Libia, e loro “genti”. Quello di gradevole che succedeva ai turisti in occasione delle loro visite di pochi giorni, per noi “residenti” era disponibile sempre e forse per questo non è stato mai apprezzato abbastanza.
In quel Museo a cielo aperto, il reperto storico “prezioso” era l’Arco di Marco Aurelio che risaliva al periodo aureo dell’Impero Romano (I – IV sec. d.C.), quando Tripoli allora Oea, fondata come emporio dai Fenici nel VIII sec. a. C., faceva parte assieme a Sabratha e Leptis Magna della provincia Romana “Africa Nova” instaurata da Giulio Cesare nel 46 a. C., la popolazione indigena parlava il dialetto berbero e i più eruditi di loro, il latino e il greco. L’arco era stato eretto nel 163 d. C. per volontà di un magistrato del luogo, Caius Celsus, in onore dell’imperatore Marco Aurelio (121-180 d. C.) e del figlio Lucio Vero, nella forma quadrifronte su quattro piloni con la copertura a cupola. A partire dal V sec. d. C., prima ancora della caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d. C.), l’invasione dei Vandali nel Nord Africa aveva portato alla decadenza dell’arco che continuò anche dopo la conquista delle ex province romane d’Africa ad opera dei Bizantini, quando a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, era imperatore Giustiniano (527-65 d. C.), un secolo dopo che S. Agostino D’Ippona (Algeria, 354-430 d. C.) aveva invocato invano l’intervento liberatorio dei Bizantini dai Vandali.
Nel VII Sec. d. C., l’Impero Romano d’Oriente dovette cedere le province africane agli Arabi e questi a loro volta nel XVI Sec.d. C. agli Ottomani: due popolazioni di origine etnica diversa, Arabi e Ottomani, ma stessa religione islamica. Nel 1552 d. C. Tripoli di Barberia, dopo un breve periodo di dominio spagnolo (1510-30) seguito da quello dei Cavalieri di Malta su mandato dell’Imperatore Carlo V di Spagna (1530-52), passò definitivamente all’Impero Ottomano sotto il governatore Murad Aga Pascià (1552-57), sepolto nell’omonima moschea nell’oasi di Tagiura, seguito da Dargut Pascià (1557-65), sepolto nella moschea del lungomare di Tripoli che porta il suo nome, circa un secolo e mezzo prima dell’avvento della dinastia dei Karamanli (1711-1835).
Durante i secoli che vanno dalla fine dell’Impero Romano d’Oriente (1453 d. C.) alla fine della guerra dell’Italia all’impero Ottomano per la conquista della Libia (1911), l’Arco di Marco Aurelio subì la decadenza fisica e gradatamente venne invaso dalla sabbia del deserto portata dal ghibli che in parte lo ricoprì ma anche lo conservò, ma fu asfissiato dagli edifici costruiti attorno a ridosso, irriverenti del valore storico ed archeologico di quel reperto adornato di significativi bassorilievi, alcuni dei quali asportati e trasferiti altrove. Nel 1911 in Libia, divenuta colonia dell’Italia con capitale Tripoli, i Governatori – impegnati nei primi due decenni (1911-1931) in altre priorità più impellenti – non si posero da subito il problema di riabilitazione dell’arco, tuttavia l’archeologia fin dal 1920 venne fortemente curata (Sabrata, Leptis Magna, Cirene) dalla “Sovraintendenza alle Antichità della Libia”, alla cui guida si susseguirono eccellenti esperti italiani, da Salvatore Aurigemma (1913-19) a Ernesto Vergara Caffarelli (1951-61) a Antonino De Vita fino al 1965. La svolta alla restaurazione dell’arco di Marco Aurelio arrivò con la nomina a Governatore della Libia di Italo Balbo (1934-40), che aveva il culto della “romanità” da cui traeva ispirazione la sua politica, tanto che cambiò lo “status” di una parte consistente della colonia in Province Oltremare d’Italia “Quarta Sponda”, in cui i nativi (indigeni) divennero cittadini italiani-libici. Italo Balbo volle riportare l’Arco di Marco Aurelio allo splendore romano e nel 1937 ne assegnò il compito all’architetto Floriano Di Fausto (a Tripoli dal 1932-40), ed è questo l’arco ereditato dai Libici nel 1951.Mantenendo lo sguardo sulla storia, anche gli Ottomani fecero opere significative che ne fanno parte della storia libica, come la sontuosa Moschea di Jusef Gurgi (1833) capostipite di una nota famiglia di origine georgiana, mentre la piccola altamente simbolica antica moschea, dedicata allo storico teologo arabo Sidi Abd Al-Wahàb (1703-92) risale alla conquista araba, la prima (Gurgi) nel percorso dallo sbocco della Hara Al-Kebira al porto, sorge all’inizio dello spazio in questione, la seconda (Abd Al-Wahàb) alla fine a ridosso del porto stesso (vedi mappa).
Qui giunti al porto, entriamo in quella parte più recente della storia, ma prima non si può trascurare l’importanza sociale degli edifici sorti attorno all’Arco che hanno svolto funzioni di “mercato” e i fonduk (alberghi) per i viaggiatori del tempo (vedi foto). Questo luogo era anche un importante punto d’incontro tra arabi, berberi, ebrei, maltesi e italiani: comunità diverse per etnia, cultura, costumi, religioni, ma accomunati dagli eventi della storia che ne permisero una convivenza pacifica.
Nel percorso verso il porto con le spalle all’arco,superata la strada del lungomare costruita durante la colonia italiana, bordeggiata da un marciapiede accogliente protetto da un consistente parapetto, si apriva un varco che immetteva, attraverso una larga scalinata, al molo dei pescatori noto come “Scesa Marina”. nome assegnato dai maltesi della comunità presente nella Città Vecchia da secoli. Era un punto d’incontro al porto tra i pescatori che vi giungevano con le barche del pescato e gli acquirenti delle diverse etnie che abitavano nella Città Vecchia e Nuova.
Prima di concludere c’è qualcosa che ho tralasciato che merita ancora di essere ricordata: Sciara Al-Quasc (Via dei Forni), lo sbocco a Bab Al-Bahar del quartiere della Hara Al-Kebir, abitato prevalentemente dagli ebrei le cui radici in quella parte della Città Vecchia risalgono ai tempi lontani. Era la strada più affollata del quartiere, poiché conduceva al porto, ma anche per i molti esercizi commerciali, i caffè e i forni che le hanno dato il nome,dove la popolazione portava a cuocere il pane e i dolci che diffondevano i loro profumi nell’aria a coprire quelli delle muffe, diffuse agli angoli ombrosi umidicci della stretta strada poco più larga di una zenghet (stradina).
Per noi Italiani vissuti in Libia ed in particolare a Tripoli negli anni ‘60, Bab Al-Bahar è stato un luogo sensazionale della città enfatizzato dalla presenza dell’Arco di Marco Aurelio: un reperto della civiltà romana da cui discendevamo che ci inorgogliva. Ora 50 anni dopo questa sensazione rimane, poiché quei reperti, le moschee antiche, i fonduk, i caffè, i ristoranti, tutti elementi di un tempo passato, ci permettono di mantenere e trasmettere ai posteri il fascino della loro suggestiva storia.
Di Vittorio Sciuto