Il contesto africano

In cinquant’anni la popolazione continentale è passata dai 285 milioni del 1960 a 1,2 miliardi del 2018. Si prevede che dal 2017 al 2050 l’Africa raddoppierà la sua popolazione, che ha un’età media fantascientifica, secondo i criteri italiani: sotto i 18 anni. Nel centro Africa si arriva a un’età media di 15,1 anni. Negli anni scorsi gli Stati Uniti hanno avuto una presenza in tono minore, ma adesso, dal 25 marzo al 2 aprile, la vicepresidente Kamala Harris ha in agenda visite in Ghana, Tanzania e Zambia. Tutti, insomma, stanno correndo in Africa. E’ in calo il peso della Francia, che negli ultimi decenni ha applicato politiche militari (Sahel e la guerra contro Gheddafi) e “predatorie” (per esempio in Costa d’Avorio).  La guerra in Ucraina e il nuovo imperialismo cinese hanno dato più importanza all’Africa come fonte di minerali, oltre alle Terre rare e l’uranio, gli idrocarburi. E’ cresciuta la presenza dell’Italia, grazie a una svolta geopolitica del governo italiano nei confronti di Algeria, India, Africa del Nord e Africa subsahariana (inoltre, Eni è presente nell’area tra Egitto e Nigeria). Il ruolo italiano potrà essere positivo per entrambi i partner: una vera modernizzazione industriale potrebbe dare ricchezza all’Africa, riducendo la presenza di Cina e Russia e contribuendo a un maggiore equilibrio internazionale. Il presidente francese Macron nelle scorse settimane ha voluto copiare la presidente del Consiglio Giorgia Meloni su uno “scambio alla pari tra paesi africani ed europei”, ma non è molto credibile, visto che il suo viaggio in Africa è partito dal Gabon, dove la Francia sostiene la rielezione del dittatore Ali Bongo. La presenza cinese è in simbiosi con quella militare russa, che cerca soprattutto di controllare il settore degli idrocarburi: i mercenari di Wagner sono presenti oggi in quindici nazioni africane, in molte delle quali hanno sostituito le missioni francesi e la loro Legione Straniera.

La Libia e l’Italia

Da anni, dai 3000 ai 5000 mercenari russi si trovano infatti in Cirenaica. Nello scorso agosto un drone-spia americano è stato abbattuto nei pressi di un aeroporto militare vicino a Bengasi da un sistema antiaereo Pantsir in dotazione al gruppo Wagner, e in supporto all’Esercito nazionale libico del generale Haftar.  Nel 2019 altri due droni (un italiano e uno statunitense) furono abbattuti nel corso del tentativo di Haftar diì conquistare la Tripolitania. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ripreso informative già note da tempo dei nostri Servizi di intelligence, riguardo il ruolo svolto dal corpo paramilitare russo nell’immigrazione clandestina verso l’Italia. L’immigrazione verso l’Europa nasce da problemi contingenti (crisi economica e incremento delle popolazioni nel Sahel e più a sud) ma è anche una costante storica legata a situazioni critiche interne a Libia e Tunisia. Ricordiamo, del resto, i corsari presenti sulle nostre coste ancora a inizi 1800 e la tratta di schiavi ricominciata alla fine delle guerre napoleoniche, quando l’economia libica entrò in crisi e quando la dinastia Caramanli, rappresentante dell’impero turco, per dare ossigeno alle casse di Tripoli, rilanciò la guerra di corsa e la tratta di schiavi sub-sahariani verso l’Europa. E’ singolare che storici e organi di informazione non ricordino mai questa storia di “immigrazione forzata”, che per fortuna non durò a lungo, grazie al diffondersi di quelle idee liberali che, circolando negli Stati Uniti ed in Europa, bloccarono lo schiavismo. L’attuale “tratta 2.0” dal Sahel verso Libia e Tunisia nasce dalla crisi economica, e potrebbe crescere a causa degli interessi (di varie parti) di tenere sotto scacco un’Europa in crisi demografica e bisognosa di lavoratori di bassa specializzazione. Appare invece necessario utilizzare la soluzione dei corridoi umanitari. Il 14 marzo la Ue ha annunciato l’invio di altre navi per il pattugliamento delle coste libiche, dopo che il sistema attuale ha prodotto altri 30 morti nel mare libico.

Nel 1943 la Libia passò sotto il controllo inglese, tranne il Fezzan che fu affidato ai francesi del generale De Gaulle.  Gli italiani di Libia supportarono il principe Suleiman della dinastia Caramanli, che risiedeva a Roma ed era un ufficiale dell’esercito regio. Gli italiani di Tripoli preparavano in segreto il suo arrivo con manifestazioni in suo sostegno come governatore della Tripolitania. Il principe partì verso la Libia, ma nel corso di una sosta a Tunisi subì una “vaccinazione” su cui si discusse molto, da parte di medici inglesi. Morì infatti dopo pochi giorni. Conseguenza di ciò fu la vittoria dei senussi della Cirenaica e di re Idriss, legato agli angloamericani, il quale nel 1951 diventò sovrano del Regno Unito della Libia (se ne può leggere in Ettore Rossi: Oriente Moderno, Nr. 10/12, 1951). Francia e Russia avrebbero preferito una spartizione con la Cirenaica sotto il controllo inglese, il Fezzan sotto quello francese, mentre la Tripolitania – dove nel 1950 gli italiani erano 45.000 – sarebbe rimasta sotto l’amministrazione fiduciaria italiana. La “Tratta 2.0”, con l’intrusione in Libia di nazioni di poca democrazia e nessuno scrupolo, oltre alla guerra civile tra Tripolitania e Cirenaica (dove non va dimenticato il ruolo egiziano), ha portato la Libia a essere tra i Paesi più corrotti al mondo (è uscita recentemente una graduatoria di Transparency international che la mette al 172esimo posto, prima dell’Afghanistan e dopo la Repubblica del Congo).  agli ultimi posti, mentre l’Italia dal 51esimo sale al 41esimo posto). Di fronte a un’agricoltura che tra le due guerre diventò fiorente – e non soltanto per gli splendidi uliveti italiani di Bengasi – si può ricordare il caso di Israele, che ha creato un’agricoltura nel deserto basata sulla alta tecnologia e su sistemi innovativi di irrigazione. Anche il deserto libico può essere contrastato, ma in questi ultimi anni la Libia ha perduto la sua autonomia alimentare per colpa dei tragici eventi nei quali è ormai precipitata. L’industria agricola sarebbe invece decisiva per dare nuovo slancio alla sua economia. In questi ultimi anni, per giunta, si è trovato sotto il Sahara un mare di acqua fossile esteso quanto la Germania, da cui parte una rete idrica verso la costa che va estesa e migliorata. Il nostro agrotech, unito a quello israeliano, potrebbe ridare autonomia alimentare alla Libia e alle altre nazioni nordafricane. Serve però un piano ad hoc. La partnership paritaria italo-libica avrebbe poi bisogno di infrastrutture, utili a creare industrie locali, come è stato fatto in Marocco, e industrie italiane, delocalizzate a pochi chilometri dall’Italia invece che in Cina. Politicamente, il rappresentante ONU in Libia ha ribadito l’urgenza di un voto chiarificatore in una nazione divisa da ingerenze straniere (anche se la Turchia ha rivisto le sue pretese). Il rilancio degli idrocarburi significa ricavi sicuri, utili a finanziare l’economia. Non possiamo sapere, ora, se il voto aiuterà a far rientrare la spaccatura tra Cirenaica, Tripolitana e Fezzan.

L’importante novità è un governo italiano che, dopo decenni di inerzia assoluta, ha capito che un rilancio della geopolitica italiana nel Mediterraneo può significare ricchezza e che il libero commercio può creare pace tra le nazioni. Nel corso della sua recente visita a Tripoli, infatti, Giorgia Meloni ha riallacciato rapporti con la Cirenaica e ha siglato uno storico accordo per Eni da 8 miliardi di dollari.  “Strutture A&E”, il progetto di Eni volto ad aumentare la produzione di gas per rifornire il mercato interno libico e a garantire l’esportazione di importanti volumi verso l’Europa, è il primo progetto internazionale in Libia dopo la guerra che portò alla fine di Muhammar Gheddafi, con due nuovi giacimenti offshore. Il gas servirà anche al consumo libico e prevede un impianto di cattura e stoccaggio della CO2 a Mellitah. Si converge su soluzioni contro l’immigrazione incontrollata, ma la questione deve naturalmente coinvolgere Ue e Unione Africana, altrimenti potrebbe rivelarsi un insuccesso. Infine, in Libia, sembra nuovamente sbloccata la realizzazione dell’autostrada costiera di 2mila Km. che correrà a fianco della Via Balbia che, dal 1937, collega Tunisia ed Egitto. L’infrastruttura unirà Tripolitania e Cirenaica ed è un progetto visto con favore anche dall’Egitto. Il primo lotto dell’opera fu vinto nel 2013 dal consorzio Salini-Impregilo (oggi Webuild S.p.A), e sarebbe partito in Cirenaica. Oggi il presidente Serraj chiede che i lavori partano anche dalla Tripolitania. L’opera si collegherebbe con l’autostrada Trans-African Highway 1, TAH1, chiamata anche Cairo-Dakar Highway. I soggetti coinvolti sono soprattutto la Commissione economica per l’Africa, la Banca africana di sviluppo e l’Unione africana. Il percorso comprende già dieci autostrade nazionali, collegate tra loro da strade. La TAH1 ha una lunghezza totale di 8.636 km e sarebbe in grado di migliorare le economie locali, a patto che un nuovo progetto di crescita del Nord Africa diventi, davvero, realtà.

Paolo Della Chiesa