La costruzione del Cimitero Cristiano di Tripoli (Libia), risale agli anni ’20 del XX sec. durante la colonia italiana, sulla collina di Hammangi (denominazione ottomana), alla periferia ovest della città in un terreno donato da un benemerito banchiere maltese. In questo articolo ne riporto brevemente la storia, soffermandomi in particolare sul Sacrario Militare, sorto negli anni ’50 all’interno del Cimitero, e sulla figura di uno dei maggiori protagonisti: Mons. Pietro Nani.
Nella fase finale della II Guerra Mondiale nel Nord Africa dopo El-Alamein (ott. 1942), in Tunisia nel 1943 entra in scena un prete dall’aspetto apparentemente comune ai tanti cappellani militari impegnati nell’esercito a incorag- giare i vivi, confortare i feriti, onorare i morti. Tuttavia, questo personaggio aveva un passato glorioso, non in senso militare ma umanitario, che celava nella sua natura umile: Mons. Pietro Nani. Era nato a Spigno, un paesino in quel di Acqui Terme (AL), nel 1887, consacrato sacerdote “comboniano” nel 1912, da buon piemontese aveva nel sangue l’attitudine militare, non in senso bellico ma della disciplina e del dovere. Era stato cappellano militare nella prima guerra mondiale, quando si era guadagnato una medaglia d’argento al valore per meriti umanitari nel Carso e nell’Isonzo. Aveva allestito la salma del Milite Ignoto trasportato da Aquileia a Roma nel 1921, ed all’inizio del 1943 aveva seguito le truppe del gen. Messe in Tunisia dove cadde prigioniero. Tornato a casa, nel 1950 arrivò il momento della sua grande avventura che ora, a missione compiuta può definirsi “opera”, ma in realtà nelle condizioni in cui si svolse di avventura si trattò. La missione di Mons. Pietro Nani iniziò negli anni ’50, quando il nostro Ministero della Difesa decise che i caduti all’estero della II Guerra Mondiale (1940-45), e in generale nel Nordafrica, dovessero avere un’esequie ed una tomba, ed all’uopo istituì una Commissione per le Onoranze Funebri. Per il Nordafrica le operazioni di “recupero, identificazione e se- poltura” furono affidate a due delegazioni: una per l’Egitto, assegnata al Col. Paolo Caccia Dominioni, e l’altra per la Libia, affidata a Mons. Pietro Nani. In Libia i caduti da recuperare non erano solo quelli vittime del secondo conflitto mondiale, c’erano anche quelli della guerra contro i Turchi (Ottomani) del 1911-12, e della riconquista territoriale contro la resistenza libica del 1922-31. Un compito che si addiceva ad un religioso con vasta esperienza di eventi bellici, capace di leggere le mappe dei campi minati e distinguere le divise militari dei caduti riesumati.
La ricerca dei caduti richiese di percorrere 400.000 Km, pari a 10 volte il giro del mondo, attraverso campi minati e territori impervi, dalla Marmarica a Kufra, dalla Cirenaica alla Sirtica ed alla Gefara, fino al Fezzan. Mons. Nani fu infaticabile, come fosse invaso da una forza sovrumana: si sentiva investito di una missione altamente umanitaria e, per il prete che c’era in lui, anche “sacra”: dare la dignità di una tomba a quei ragazzi che da tempo attendevano un gesto riconoscente della Patria, in cambio della giovinezza stroncata a difesa dei valori e degli ideali in cui avevano creduto a prescindere della divisa che ave- vano indossato. Nelle operazioni sul campo non indossava l’ingombrante abito religioso dell’ordine a cui si era votato, ma per praticità una “sahariana”. Il titolo onorario di “Monsignore” al pronunciarlo incuteva rispetto e dal prete scaturivano sentimenti di pace e di umanità, la sua figura solare unitamente all’età avanzata ed il fare schietto e deciso ispiravano fiducia in quanti avevano a che farci.
In Libia quando guidò la Delegazione italiana dal 1955 al 1959, gli indigeni delle cabile che incontrava nel corso della ricerca, avevano assistito durante la guerra al confronto divenu-to man mano sempre più “impari” tra i contendenti, e sapevano bene che nell’esercito italiano c’erano anche truppe coloniali di ascari e meharisti eritrei e libici. Sicché, consci che in fondo gli Italiani non si erano comportati poi così male all’epoca della colonia, come qualche storico voleva far credere, avevano simpatizzato con quel “bibas” (prete) che sulla divisa sahariana portava una piccola Croce Rossa, sufficiente a mostrare la sua fede senza ostentazione nel rispetto dei musulmani, ma ne aveva una grande nel cuore. I capi-cabila ed i pastori che partecipavano alla ricerca dei caduti non capendo il significato di Monsignore pronunciato dai suoi collaboratori, per assonanza lo chiamavano: “Maggiori”. La missione assegnatagli risultò molto complessa per l’estensione del teatro di guerra, vasto 1800 km dal confine egiziano a quello tunisino, per i rischi dei campi minati e per l’identificazione delle salme riesumate logorate dal tempo, variabile tra i 13-45 anni (1911-1943) a seconda degli eventi bellici in cui si era consumato il sacrificio delle loro vite. Mons. Nani si avvalse di preziosi collaboratori, come “Lello” (Lionello Stancari, 1920-2001), amico, assistente, autista ed interprete; altrettanto preziosi furono i capi-cabila ed i pastori dei territori teatro di guerra, infine, ma non ultimo, il compianto Silvio Peluffo (1924-2007), noto giornalista-regista, profondo conoscitore del territorio libico e della lingua araba.
La Delegazione italiana operò in collaborazione con quelle Inglese e Tedesca e furono recuperate migliaia di salme di soldati italiani, truppe coloniali, caduti tedeschi, “soldiers” inglesi e del Commonwealth, accomunati dal sacrificio della vita per la propria Patria.
Le missioni delle delegazioni inglese e tedesca furono di breve durata poiché i loro caduti erano limitati ai tre anni di guerra 1940-43, diversamente da quella italiana, impegnata nel recupero dei caduti di un trentennio (1911-43), che si protrasse fino al 1959. La maggior parte delle 12.500 salme dei soldati italiani e coloniali equiparati “noti ed ignoti”, furono traslate nel Sacrario Militare di Hammangi (Tripoli), completato nel 1959; poche invece furono rimpatriate su richiesta dei parenti rientrati in Italia. Per gli alti meriti acquisiti nella sua missione, nel 1956 a Mons. Pietro Nani venne conferita l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. La sua competenza fu preziosa nella progettazione del Sacrario Militare di Redipuglia (Gorizia, 1938) e dei Caduti d’Oltremare (Bari 1967), che sarebbe divenuta in seguito (1972) anche la Casa definitiva dei suoi “ragazzi” di Hammangi. In età avanzata si ritirò nella sua città di Acqui Terme dove morì il 5 settembre 1970. In altri tempi sarebbe stato un personaggio ideale per un racconto di Edmondo De Amicis nel libro “Cuore”, dedicato a quelle migliaia di caduti d’Italia recuperati in Libia, molti dei quali non ancora ventenni partirono per la guerra nel Nordafrica senza fare ritorno dalle loro madri, spose, figli.
L’origine del Sacrario Militare di Hammangi. Quando la missione di recupero dei Caduti in Libia fu avviata nel 1955, arrivò il momento di trovare un luogo degno dove seppellire le salme riesumate nel deserto. Prevalse l’idea di seguire l’esempio collaudato in Egitto, dove il Col. Paolo Caccia Dominioni (medaglia d’argento al valore ad El-Alamein 1942, medaglia d’oro alla memoria 2022), ufficiale valoroso ma anche valido architetto, aveva progettato il Sacrario Militare di El-Alamein. Fu così deciso di assegnare il progetto del Sacrario Militare di Tripoli allo stesso architetto. Il luogo scelto fu il Cimitero Cristiano di Hammangi, sito sulla collina alla periferia-ovest della città di Tripoli di fronte al mare, sicché i caduti della Quarta Sponda potessero volgere lo sguardo alla sponda opposta della Madrepatria, bagnata dallo stesso mar Mediterraneo che li univa.
All’epoca della costruzione del Sacrario Militare affidata all’impresa Baldrati e alla direzione dei Lavori dell’Ing. Renato De Paoli, il Cimitero di Hammangi misurava circa 95.000 mq e disponeva di sufficiente spazio libero per collocarci la nuova opera al centro dell’area cimiteriale, attraversata lungo l’asse longitudinale nord-sud da un viale in linea retta dall’entrata al fondo, interrotto solamente davanti all’ingresso del Sacrario stesso da una rotonda in cui sorgeva il monumento alla Pietà sormontato da una grande croce con crocefisso, opera del periodo coloniale dell’artista Angiolo Vannetti. Superata la rotonda il viale proseguiva attraverso l’arco centrale di una struttura composta da altri sei archi più piccoli, ispirata agli acquedotti romani che segnava l’entrata del Sacrario Militare. Oltre l’arcata, si apriva un vasto spazio sufficiente a collocarvi due imponenti padiglioni simmetrici ai lati del viale che l’attraversava per proseguire fino in fondo dove sorgeva la Cappella Votiva, fiancheggiata ai lati da due ali di sette archetti ciascuna, sostenuti da otto colonne. Quattordici archi e sedici colonne in totale, sulle quali erano incastonati altrettanti pannelli di bronzo con incisi i nomi delle località delle battaglie in cui morirono quei soldati.
Nei due padiglioni furono alloggiate, a piani sovrapposti, le cassette-ossario dei caduti in ordine alfabetico, a prescindere dall’arma di appartenenza e grado militare (perché la morte equipara tutti). Nel padiglione di sinistra (est) con la scritta a caratteri di bronzo dorato “Ottennero il regno della gloria e la mano del Signore li protegge”, furono raccolti i caduti della guerra 1940-43 delle divisioni: Ariete, Bologna, Brescia, Cirene, Giovani FF, Marmarica, Sabratha, Savona, Sirte, Spezia, Trento, Trieste. XXVIII Ottobre, I/II Libica, Truppe Gaf, Marina e Aeronautica. Nella sua cripta erano state collocate, in una tomba-ossario comune, 2500 salme non identificate. Nel padiglione di destra (ovest) con la scritta dello stesso stile “I corpi sono sepolti in pace ed il loro ricordo vivrà in eterno”, in parte ancora i caduti del 1940-43 e quelli delle guerre del periodo dal 1911 al 1939, appartenenti ai corpi dei Carabinieri, Granatieri, Fanteria, Alpini, Bersaglieri, Artiglieria, Cavalleria, Genio, Sanità, Sussistenza, Ascari, Meharisti. Nella cripta di questo padiglione giacevano le salme di 3.000 Ascari Eritrei caduti in Libia. La Cappella Votiva in fondo al viale, innalzata al cielo, appariva maestosa e solenne fin da lontano con la sua scritta: “Ipsis, honor et gloria”. All’interno, sopra l’altare, dominava un mistico dipinto della Madonna con il Figlio deposto dalla croce, simbolo del sacrificio. All’esterno, la Cappella era custodita dagli otto leoni di bronzo recuperati dal Monumento ai Caduti che sorgeva fronte mare nel punto più alto della città vecchia. Nella cripta della cappella erano collocate le tombe del Maresciallo d’Italia e Governatore della Libia, Italo Balbo e degli sventurati compagni dell’aereo abbattuto a Tobruk nel 1940 ed alcuni militari decorati di medaglie d’oro (dal 1970 ad Orbetello).
Dal 1972 i Caduti del Sacrario Militare di Hammangi riposano nel Sacrario dei Caduti d’Ol- tremare di Bari dove sono stati trasferiti. In quanto a Mons. Pietro Nani, che Dio l’abbia in gloria, viene da pensare che nel settembre 1970, giusto il tempo della tragedia degli Italiani di Libia, quando fu chiamato alla “Casa del Padre” e vi ritrovò i suoi “ragazzi” del Sacrario di Hammangi, deve aver provato una grande gioia, ma anche un grande imba- razzo a spiegare che il loro sacrificio non era stato invano. A 50 anni dalla sua morte, quello che possiamo dirgli nel silenzio dei nostri ricordi è “Sciukkran Maggiori”, e ci piace pensare che ci ricambierà con un timido sorriso ed una malcelata lacrima di commozione.
Il Cimitero Cristiano di Hammangi “ristrutturato” negli anni 2004-08. Dopo la confisca dei beni degli Italiani ed il rimpatrio obbligato nel 1970, nel Cimitero di Hammangi in cui sorgeva il Sacrario Militare svuotato dei soldati trasferiti al Sacrario Miliare Oltremare di Bari nel 1972, giacevano 8.500 tombe di civili italiani e comunità minori che subirono la profana- zione e furono messe a soq- quadro dai ladri di oggetti funebri ornamentali e da igno- bili vandali, nell’impotenza del- la nostra Ambasciata di Tripoli.
Nel 2002 l’Associazione Italiana Rimpatriati dalla Libia (AIRL), messa al corrente dagli Italiani che lavoravano in Libia e da amici libici sensibili al culto dei morti, promosse un “Comitato Italiano di Hammangi” che rivolse un appello al Ministro degli Esteri. Poi nel 2004 in seguito ad una visita a Tripoli di una delegazione di ex residenti italiani, guidata da Giovanna Ortu, allora presidente dell’AIRL, mirata a riallacciare i rapporti di amicizia con le autorità e la popolazione libica, la situazione in cui versava il cimitero apparve in tutta la sua devastante realtà e fu riportata con evidenza dalla stampa italiana.
L’AIRL sollecitò l’intervento del Ministero degli Affari Esteri che ottenne dalle autorità libiche l’esecuzione di un progetto di “Risanamento” finanziato dallo stesso Ministero ed enti privati. Così nel 2006 furono avviati i lavori, poi completati nel 2008. Il 2 novembre 2007, prima del completamento dei lavori, il restaurato cimitero fu inaugurato con una cerimonia religiosa, alla presenza delle nostre Autorità diplomatiche e dei rappresentanti della Comunità italiana. Tra il 2004-08 sono state riesumate 8.500 salme civili dalle nicchie (colombari) e dalla terra, tradotte in cassette-ossario alloggiate nei loculi all’interno dei due risanati padiglioni del Sacrario Militare dei caduti in Libia rimasto vuoto dopo il 1972. E’ stata recuperata la Cappella Votiva con ai lati le ali di arcate in cui sono stati collocati 16 pannelli bronzei di un percorso “Via Crucis” in sostituzione dei pannelli rievocativi delle battaglie. I lavori si sono svolti con la supervisione di una Commissione bilaterale italo-libica di cui ha fatto parte, in rappresentanza del Comitato AIRL per Hammangi, il tripolino geom. Luigi Sillano. E’ stata ripristinata la rotonda con il monumento alla Pietà sormontato dalla croce senza il Cristo crocifisso troppo esposto ad atti vandalici, e ricostruito un muro di recinzione a delimi- tazione dell’attuale area ridotta a circa 12.000 mq rispetto ai 95.000 originali (vedi mappa).
Dopo la caduta del Col. Muammar Gheddafi nel 2011, il Cimitero di Hammangi è stato nuovamente profanato dai vandali, e nel 2019 è stato risanato a seguito dell’intervento del nostro Ministero degli Esteri, tramite l’Ambasciata Italiana di Tripoli che, alla loro conclusione nel 2020, ha prodotto il video-documento diffuso recentemente dall’AIRL. Oggi che i rap- porti tra Italia e Libia sono tornati amichevoli, come la storia “complice la geografia” ci insegna, siamo convinti che il Cimitero di Hammangi godrà finalmente del rispetto dovuto ai morti, sicchè i nostri figli e nipoti possano recarvisi a deporre un fiore, recitare una pre- ghiera e visitare Tripoli, la meravigliosa città che i loro padri e i nonni hanno raccontato.
Vittorio Sciuto