Articolo pubblicato su Italiani di Libia 2-2023

Il rapporto tra l’Italia e il suo passato coloniale è qualcosa di complicato e contraddittorio segnato dalla rimozione, dalla auto assoluzione, dalla riduzione del problema e dalle reinterpretazioni talvolta apologetiche e nostalgiche che hanno tentato – e in alcuni casi tentano ancora oggi – di riscattare le azioni degli italiani che approdarono in Africa per dare a quelle terre «altra legge e un altro Re».[1]

Il dibattito storiografico riguardo il colonialismo italiano si è arricchito, da tempo ormai, di spunti e riflessioni piuttosto esaustive sulle ragioni alla base di questi meccanismi di rimozione e assoluzione collettiva. I lavori di studiosi come Del Boca o Labanca hanno indagato a fondo proprio questi temi e un folto gruppo di autori ha contribuito, nel tempo, a scardinare la narrativa storiografica apologetica che nei primi decenni del dopoguerra aveva raccontato la storia coloniale esclusivamente come un’impresa civilizzatrice e modernizzatrice di popolazioni e territori arretrati.[2] Sempre a livello storiografico si è giunti ad una elevata consapevolezza di quel che fu il fenomeno coloniale, tanto che l’estinta narrazione apologetica è rinata – o è sopravvissuta sottotraccia – in alcune riviste e siti internet nei quali si rivendica uno studio indipendente e in controtendenza ad una narrazione diventata ormai predominante accusata di essere antiitaliana e anticoloniale a prescindere, per ideologia. Quel che è mancato in Italia è stato un serio dibattito nell’opinione pubblica sul colonialismo italiano. Poco conta la breve querelle degli anni Novanta tra Del Boca e Montanelli che si è limitata principalmente all’uso dei gas nella guerra d’Etiopia, acme del periodo coloniale non totalizzante.

Una delle ragioni per cui l’Italia ha una delle opinioni pubbliche meno consapevoli dell’Europa riguardo il proprio passato coloniale sta anche nella scarsa presenza di libri o film che ne hanno divulgato la storia negli anni che seguirono la decolonizzazione. A questo proposito qui si vuole far luce su un racconto, Ingresso a Babele di Alessandro Spina che non ha avuto grande impatto nonostante la qualità e l’acutezza del suo autore.

Alessandro Spina è uno degli autori che è riuscito a narrare quel che è rimasto nella coscienza degli italiani dopo la decolonizzazione, innescata di fretta e furia per sconfitta inflitta da altre potenze occidentali durante la Seconda guerra mondiale più che per rivolta indigena. Nel suo racconto, ogni personaggio rappresenta uno dei modi in cui gli italiani hanno reagito all’evento, mostrando come l’indifferenza o al massimo la nostalgia abbiano caratterizzato la reazione degli ex colonizzatori.

L’autore è nato in una famiglia di cristiani maroniti di origini siriane, trasferitosi da giovane a Bengasi e poi a Milano per proseguire gli studi, è un rarissimo esempio di intellettuale che ha potuto vivere sia la colonia che la madre patria in pieno colonialismo e immediata decolonizzazione.

Il protagonista di Ingresso a Babele è Ezzeddin, un avvocato libico inviato a Milano da Bengasi per assicurarsi il passaggio di proprietà di alcuni immobili che nel 1948 appartenevano ancora ad alcuni milanesi. Il punto di vista è volutamente di un libico ed è attraverso di lui che il lettore può cogliere le contraddizioni che dilaniano la coscienza post-coloniale degli italiani che in quegli anni, per giunta, non avevano ancora del tutto rinunciato ai loro vecchi possedimenti coloniali. Nel racconto, Ezzeddin si trova a rapportarsi con una famiglia i cui personaggi mostrano i diversi modi con i quali gli italiani hanno o non hanno affrontato il loro passato coloniale. Il primo di questi incontri è con Mei, un professore che pare sorpreso di vedere come in Libia ci fossero persone desiderose di acquisire le proprietà degli ex colonizzatori. Nel dialogo tra i due, l’italiano chiede al libico perché i suoi compatrioti stiano scegliendo l’amministrazione britannica invece che preferire quella italiana. Ezzedin, rendendosi conto dell’ingenuità del suo interlocutore, risponde che non è un nuovo padrone coloniale che i libici cercano, ma l’indipendenza. Mei, sempre più sorpreso e incapace di capire il punto di vista dell’altro, chiede apertamente al suo interlocutore che cosa se ne sarebbero fatti dell’indipendenza. Il Professor Mei rappresenta l’italiano che reputa inutile fare ammenda del passato coloniale perché l’ipotetico processo, nelle sue parole, avrebbe «imputati illustri, Inghilterra e Francia… maggiori potenze coloniali»[3] liquidando il tutto con un’alzata di spalle esemplificatrice dell’atteggiamento post-coloniale di una parte di italiani che vedeva nella presenza di colpevoli più colpevoli le ragioni di una innocenza italiana. Il secondo incontro avviene con due personaggi giovani su cui non ricade direttamente la colpa coloniale. Tommaso appare un personaggio sognatore che si rivolge al futuro, che non si preoccupa del passato coloniale. Piuttosto, mette in guardia Ezzeddin dai politici farabutti che cercano di manipolare le masse. Al contrario, Giovanni è un personaggio più edonista e meno preoccupato dalla politica ma in contrasto con l’autorità paterna di Mei, che per lui non è colpevole in quanto ex colonizzatore ma in quanto figura ed incarnazione di autorità.  Il terzo personaggio della famiglia con cui Ezzeddin entra in contatto è forse il più interessante. Fausta è la vedova di un ufficiale dell’esercito morto in battaglia durante la Seconda guerra mondiale in Libia e il modo in cui guarda e pensa ad Ezzeddin è un chiaro esempio di quello che Edward Said avrebbe definito come paradigma orientalista, tipico dell’europeo colonizzatore. Come prima cosa, italianizza il nome del protagonista in Ezzellino e successivamente, gli chiede a quale tribù appartiene. Tale personaggio, che ha trascorso parte dei suoi migliori anni in colonia, serve a rappresentare nel racconto quel sentimento di nostalgia noto come mal d’Africa sperimentato da molti ex coloni dopo la perdita dei possedimenti d’oltremare. Questa parte della popolazione, sconfitta ed esiliata da quel che percepiva come propria terra, rimpiange un passato difficile da ricordare pubblicamente sul quale, oltretutto, la coscienza collettiva preferisce glissare sbrigativamente. In questi termini, Fausta è la sublimazione del colono che non è rimasto fascista dopo l’esperienza coloniale o almeno «[…] non più degli altri: è solo che il periodo più bello della [sua] vita fu quello fascista, anzi coloniale: tutto qui».[4]

Un’altra tematica che emerge dal rapporto che Ezzeddin instaura con Fausta passa attraverso l’anziana madre della vedova. In uno scambio di battute, la vecchia signora si incuriosisce su dove il libico abbia studiato per esercitare la professione di avvocato e allo scoprire che ha dovuto farlo da autodidatta in quanto ai colonizzati era proibito frequentare quei livelli di insegnamento superiore, rimane sorpresa. Dalla madrepatria, l’anziana signora ignorava completamente quella realtà coloniale e l’unica versione era quella fornita dalla propaganda che enfatizzava proprio lo sforzo civilizzatore nei confronti degli arabi-musulmani. Una vera e propria impostura ideologica di cui anche lei era rimasta vittima. Ma il contatto con la realtà offerta da Ezzeddin, durante il racconto, pare non destabilizzare le certezze di nessun personaggio, tanto meno di Fausta, convinta della missione civilizzatrice del suo popolo.

Ma c’è molto di più nel rapporto contraddittorio e paradossale di Fausta ed Ezzeddin. Da un lato, sono connessi poiché gli unici a ricordare il passato coloniale italiano mentre il resto del paese sembra averlo già dimenticato o comunque non prenderlo sul serio. Per Fausta, l’unico a ricordare la morte di suo marito e il mondo in cui lei aveva vissuto fino a poco prima in Libia è un suddito coloniale. L’unico con cui poter condividere un ricordo, ma non dalla stessa prospettiva. D’altro canto, il conflitto tra i due è evidente, in quanto Fausta non intende fare ammenda per il proprio passato. Nonostante ciò, lei resta per lui l’unica con cui condividere il ricordo e l’esperienza di quel passato coloniale perché tutto il paese sembra non ricordarlo neppure. Questo contrasto è accentuato ancora di più in quanto Ezzeddin afferma che mentre nel suo paese il popolo è galvanizzato attorno la tematica dell’indipendenza e dell’anticolonialismo, in Italia non vi è traccia della Libia nel dibattito pubblico. Ezzeddin si trova a scegliere tra «una Milano senza memoria coloniale ed esaltata dal suo recente passato, o la vedova di un tenente colonnello ancora sulla scena coloniale e devota ai suoi valori».[5] Insomma, in altre parole, Ezzeddin in Italia deve scegliere se preferire che la coscienza collettiva dimentichi o sia nostalgica. Non c’è spazio ad alcuna elaborazione.

In una scena del racconto, i due personaggi partecipano insieme ad un evento organizzato al circolo degli ufficiali, luogo dove Ezzeddin non sarebbe nemmeno stato ammesso durante il periodo coloniale. Mentre l’avvocato libico interpreta la sua presenza in quel luogo come una vittoria in quanto riesce ad accedere ai circoli del potere (post)coloniale, la vedova italiana usa Ezzeddin come un trofeo del passato da esibire nell’unico luogo dove quel trofeo ancora vale qualcosa nell’Italia post-coloniale.

Ma l’autore raggiunge vette di lucidità sui processi dello sviluppo di coscienza collettiva ancora più alti. Ezzeddin, infatti, non solo è critico nei confronti delle azioni coloniali ma anche del modo in cui queste vengono dimenticate velocemente e rielaborate per lavare la coscienza degli italiani. Non solo si sono dimenticati del ruolo di oppressori fascisti, ma sono riusciti addirittura a convertirsi in vittime di quel regime per il quale fino a poco tempo prima avevano oppresso altre popolazioni. Il mito degli italiani brava gente, direbbero alcuni studiosi, mentre Spina lo presenta in maniera romanzata ma accurata servendosi di una scena nel proprio racconto.

Recandosi al cinema, Ezzeddin e Fausta assistono ad un film che narra le vicende della resistenza italiana contro l’occupazione nazista negli ultimi atti della Seconda guerra mondiale. L’avvocato libico rimane esterrefatto da come il soldato protagonista della pellicola abbia potuto passare dal combattere per il suo paese insieme ai tedeschi e pochi mesi dopo contro i tedeschi e il fascismo al servizio della libertà.

«[il partigiano] servendo la patria in Grecia, in Albania, in Russia, in Jugoslavia, sparava, bombardava, demoliva, imprigionava, fucilava. Lì c’era gente che moriva per difendere il paese dall’aggressione ita­liana; in Jugoslavia poi, avevano già scoperto i valori della resistenza. Perché mettere nel conto solo il male che il fascismo ha fatto a lui – e dimenticare il male che lui, servendo il fascismo, ha fatto ad altri? […] In questi film bugiardi gli eroi hanno difficoltà, passano prove leg­gendarie, ma non hanno colpe… – come se il loro passato fosse già dalla parte giusta. Testimone oltremarino, sono esterrefatto da questa manipolazione del mio passato»[6]

In un frangente di onestà ed ironia, Fausta confessa che «qui in Italia siamo piagnoni […]ma la parte dei colpevoli non ci piace, il piagnone predilige non il ruolo del colpevole ma della vittima. E quando si tratta di fare ammenda gli italiani “lo fanno nell’orecchio del confessore, vincolato al silenzio”».[7]

In qualche modo, Ezzeddin riconosce che il periodo coloniale è stato una vera e propria rappresentazione teatrale. Uno spettacolo in cui gli eventi oltremare, per la madrepatria, sembrano essere accaduti solo nella finzione del palcoscenico e non nella realtà. Di conseguenza, nessuno ne è stato veramente responsabile e rievocarli, criticarli o rielaborarli non sembra essere negli interessi degli italiani. La guerra iniziata nel 1911 ha aperto il sipario su una messa in scena di violenza e soggiogazione coloniale destinate a rimanere solo laggiù, in quel lontano deserto oltremare.

Ed è così che un romanzo largamente ignorato, che di certo meriterebbe più attenzione e più successo, ha saputo cogliere in pieno un passaggio chiave della storia italiana che ancora oggi non trova il giusto spazio nel dibattito pubblico. Ma è proprio questo il punto. Un’acuta analisi della coscienza (post)coloniale italiana non può avere grande impatto sul pubblico perché proprio in virtù dei due modi in cui il colonialismo è affrontato, attraverso l’amnesia o la nostalgia, ne determina il suo insuccesso.

Di Cristiano Rimessi

 

 

[1] Riferimento al testo della canzone Faccetta Nera

[2] Per una comprensione di come il tema si è evoluto nella storiografia alcuni riferimenti sono: A. Del Boca, le conseguenze per l’italia del mancato dibattito sul colonialismo, in <<Studi Piacentini>> n°5, 1989, pp. 33-45; A. Del Boca, The Myths, soppressions, denials and Defaults of Italian colonialism, in P. Palumbo, A place in the Sun, University of California Press, Berkeley, 2003, pp. 17-36; N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002; N. Labanca, Compensazioni, passato coloniale, crimini italiani. Il generale e il particolare in G. Contini, F. Focardi, M. Petricioli (a cura di), Memoria e rimozione. I crimini di guerra del Giappone e dell’Italia, Viella, Roma 2010, A.M. Morone, Il vizio coloniale tra storia e memoria, in V. Deplano, A. Pes, Quel che resta dell’Impero. La cultura coloniale degli italiani, Mimesi, Milano-Udine, 2014, pp. 351-370

[3]Alessandro Spina, I confini dell’ombra. Ingresso a Babele, Brescia, Morcelliana, 2006, p. 794

[4] Ivi, p. 804

[5] Ivi, p. 808

[6] Ivi, pp. 801-802

[7] Ivi, p. 803