Il 23 gennaio scorso, presso la splendida sede della Società Dante Alighieri, a Palazzo Firenze a Roma, il nostro caro Amico Ambasciatore Claudio Pacifico ha presentato il suo ultimo libro “Una vita in diplomazia. Ricordi di un Ambasciatore”, edito da Luoghi Interiori. Ne hanno lungamente illustrato il contenuto, oltre all’autore, Antonio Vella, direttore generale della casa editrice, e il professor Alessandro Masi, segretario generale della Dante Alighieri. È un’autobiografia intensa e appassionante, per lo spirito indomito dell’autore che ha affrontato, fin dagli inizi della carriera, onori e oneri di rappresentare il nostro Paese – in sedi talora scomode e pericolose, talora prestigiose, ma sempre strategiche – con coraggio e successo. Per tutti i rimpatriati che hanno seguito quasi quotidianamente gli anni della sua missione in Libia, dal 2000 al 2004, è un’opportunità poter leggere, nella parte dedicata alla Jamahiriya di questo corposo volume (450 pagine), tutti i particolari, tra i quali l’importanza riservata al rapporto con la nostra Associazione. Claudio Pacifico ha concluso il suo impegno nel 2013, dopo essere stato nominato Ambasciatore di grado e aver ricevuto molte onorificenze, arabe e italiane, culminate nella più importante, Cavaliere di Gran Croce.  Per i rimpatriati è sempre stato e resta un Amico prestigioso che ha sempre guardato alla situazione e al destino degli esuli con quell’animo partecipe di chi comprende quel dramma per averlo condiviso: la famiglia Pacifico, poco prima della nascita di Claudio, era stata costretta – insieme a centinaia e migliaia di connazionali – ad abbandonare la città di Fiume poiché il maresciallo Tito aveva deciso di cancellare la presenza italiana da quella regione. Consigliamo vivamente la lettura di questo libro e, per suscitare maggiormente la vostra curiosità, abbiamo deciso di selezionare e pubblicare i due seguenti paragrafi dalla cospicua parte dell’esperienza in Libia.

 

La “Giornata della Vendetta” contro gli italiani. La difficile vita di un Ambasciatore italiano a Tripoli.

Il 7 ottobre di quel terribile anno (1970), Gheddafi aveva proclamato la ‘Giornata della Vendetta’ (contro, evidentemente, gli italiani). E io ricordo bene le varie celebrazioni della Giornata della Vendetta che, per cinque anni, la prima nel 2000, l’ultima nel 2004, ogni anno mi ero dovuto sorbire. Il copione era grosso modo sempre lo stesso. Giornata di lutto nazionale in tutto il Paese. Manifestazioni in massa (organizzate dal regime) di protesta contro l’Italia. La nostra bella Ambasciata, sul lungomare di Tripoli, circondata da folle rumorose con grandi striscioni che riportavano slogan contro gli italiani, in arabo, in inglese e persino in uno strafalcionesco italiano.

La prima volta che avevo assistito alla Giornata della Vendetta (ero arrivato a Tripoli da poco più di un mese) ero rimasto colpito e indignato. E, quanto alcuni scalmanati, dopo aver tentato di, o fatto finta di, scavalcare il muro di cinta (allora non sapevo che anche questo facesse parte del copione) avevano lasciato impigliati sui cancelli degli striscioni con scritte anti-italiane, avevo pensato che la misura fosse davvero colma. Non prestando ascolto ai richiami di saggezza, che mi venivano dai miei collaboratori con una più lunga esperienza del Paese, in un impeto di sdegno avevo dato l’ordine ai Carabinieri di rimuovere quegli stracci, già intollerabili di per sé, ma ancora più tali se ci gettavano nel compound dell’ambasciata.

La sera – ricordo bene quella mia prima Giornata della Vendetta a Tripoli, non perché sia stata peggiore degli anni seguenti, ma semplicemente perché non ero ancora abituato – ero stato cortesemente ‘convocato’ al Ministero degli Esteri, che distava pochi centinaia di metri dall’Ambasciata. Ero stato cortesemente ricevuto. E poi, invece che condotto dal Ministro, ero stato gentilmente fatto entrare in una sala. Come ero entrato, era stato abbagliato dalle luci delle telecamere delle televisioni di libiche arabe che volevano registrare l’umiliazione dello spregevole nemico (che, purtroppo, anche se non considerava tale, ero io). D’altronde questo era, volente o nolente, nel bene o nel male, il destino di un Ambasciatore: identificarsi ed essere identificato con il suo Paese. E questa era forse stata la ragione per cui, io, che non avevo mai amato il fanatismo del tifo calcistico, ero però diventato un accanito tifoso della nostra Nazionale e degli Azzurri.

Ma tornando all’imboscata tesami a Tripoli nella mia prima Giornata della Vendetta, mi ero improvvisamente ritrovato davanti alle telecamere con dietro una gigantografia della terribile fotografia di Omar El Mukhtar, il grande patriota della resistenza libica contro l’italiani, che penzolava, ormai già morto, sul patibolo della forca italiana. Davanti a me c’erano degli sconosciuti che gridavano e volevano che facessi delle dichiarazioni di scuse al popolo libico. Ero stato preso completamente di sorpresa. Ero frastornato dal clamore e dalle luci delle telecamere. Non sapevo bene cosa dire. Ma sapevo solo che non avrei pubblicamente umiliato il mio Paese. Avevo cominciato a parlare meccanicamente, non sapendo bene cosa avrei detto. Ma non avevo presentato scuse. Avevo solo espresso, anche se in modo confuso (dato che non avevo potuto in qualche modo prepararmi prima) il profondo dispiacere per le sofferenze che in un lontano passato sia il popolo libico che quello italiano (il riferimento era evidentemente i nostri profughi) avevano patito.

Il giorno dopo, avevo poi saputo che questo mio esordio in terra di Libia non era affatto piaciuto alle autorità libiche (il che per un Ambasciatore non è mai un buon viatico e, soprattutto il Libia, un Ambasciatore italiano è sempre sotto la spada di Damocle di una possibile espulsione). Ma Gheddafi, che all’epoca non avevo ancora incontrato e non conoscevo ancora di persona, aveva seguito la mia ‘spontanea’ (si fa per dire) intervista alle televisioni aveva dato un giudizio diverso. Nella sua a volte imprevedibile bizzarria aveva detto ai suoi che mi ero comportato con dignità. E aveva osservato che, a differenza di loro che portavano sgargianti e costose cravatte italiane di ‘Marinella’, eleganti ma certo non consone al lutto, io ero l’unico che portava una cravatta nera… In effetti, anche se ero controllato dei servizi libici h24, nemmeno il Colonnello poteva sapere che, per pigrizia o perché consideravo i miei abiti scuri al pari di un uniforme, la cravatta nera io la portavo sempre.

Insomma non era stato un facile inizio per un Ambasciatore italiano ‘novellino’ di Libia, anche se ‘esperto’ di rivoluzioni, quella iraniana, di attacchi ad Ambasciate, a Teheran e a Khartoum, e di guerre civili, Somalia e Sudan (mi mancava ancora il capitolo della Rivoluzione in Egitto, ma non si può pretendere di avere tutto e subito).

 

La causa dei Profughi italiani di Libia. Giovanna Ortu, dinamica e infaticabile Presidentessa dell’A.I.R.L.

Man mano che miglioravano i nostri rapporti con la Libia, diventava più facile anche la nostra azione per ottenere un risarcimento e la riammissione in Libia dei profughi italiani. Si cominciavano a vedere i primi risultati concreti. E, prima di partire definitivamente dalla Libia per rientrare in Italia, avevo fatto in tempo ad accogliere la prima delegazione dell’A.I.R.L., Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia, guidata dalla Presidentessa, la mia cara amica, Giovanna Ortu. Era un promettente buon segno.

Devo dire che, anche per la storia della mia famiglia, io simpatizzavo molto per i profughi.

La mia famiglia, una grande famiglia patriarcale sotto la guida del mio nonno materno, un uomo di altri tempi, un personaggio risorgimentale, era sta segnata irreparabilmente dal dramma dell’esilio. Nel 1945, un paio di anni prima che io nascessi, erano tutti dovuti scappare da Fiume, vittime dei sogni di potenza di Mussolini e soprattutto della campagna del Maresciallo Tito che, per ambizioni analoghe, non condivise dal suo popolo, aveva cancellato la presenza italiana da Istria e Dalmazia e avrebbe voluto estendere la sua conquista sino a Trieste.

Conoscevo dunque quella che per ogni profugo nel mondo era la ferita insanabile della perdita della Patria. Solidarizzavo con i profughi italiani di Libia, anche perché, obiettivamente, il governo italiano avrebbe potuto fare per loro un po’ di più. E, per rendere più efficace la loro azione, avevo suggerito una loro ‘alleanza’ con l’Associazione dei Profughi italiani dalla Somalia, nella quale, dopo i miei anni a Mogadiscio, avevo ancora tanti cari amici.

Un altro grande buon segno, che faceva ben sperare per la causa dei profughi italiani, era che, forse grazie al rapporto personale che ero riuscito a stabilire con il Colonnello, come gesto di buona volontà eravamo riusciti a ottenere la fine dell’embargo nei confronti degli ebrei libici, molto voluta dal Presidente Giulio Andreotti che, sino a tarda età, aveva continuato a seguire i nostri rapporti con la Libia con straordinario interesse.

Quando più tardi, sempre perorando con Gheddafi la causa dei profughi italiani, avevo invocato come precedente il ‘perdono’ che aveva concesso agli ebrei di Libia, il Colonnello mi aveva risposto indispettito, come uno che deve rispiegare la situazione a qualcuno lento di comprendonio: «Ma che c’entrano gli ebrei di Libia con gli italiani. Quelli erano libici e mica erano venuti in Libia sotto la protezione delle baionette degli invasori italiani!».

Questo articolo è stato pubblicato su Italiani di Libia n. 1 – 2024.