L’Espresso – 15 Maggio 2014

A marzo una bandiera nordcoreana è comparsa nel porto di Es Sider, in Cirenaica, e da allora in Libia è cambiato tutto. La Morning Glory, una petroliera battente appunto la bandiera di Pyongyang, ha fatto un bel carico illegale di petrolio e poi ha preso il largo, facendo spallucce davanti alla minaccia del primo ministro libico Ali Zeidan, che si era detto pronto a bombardarla. Una settimana più tardi i Navy Seals statunitensi l’hanno raggiunta al largo di Cipro e l’hanno ricondotta in porto con il suo prezioso carico di petrolio (di fatto perlopiù americano).
A due mesi di distanza, non è ancora chiaro se il cargo fosse davvero nordcoreano (Pyongyang ha subito preso le distanze), ma due conseguenze dirette del pasticciaccio della Morning Glory continuano a condizionare le vicende libiche. Da un lato, il premier Zeidan è stato subito sfiduciato e da allora regna il caos politico. Dall’altra, però, si è chiusa una fase, i ribelli che controllano l’est, la Cirenaica, hanno capito che possono sì bloccare i porti, ma non sono in grado di vendere da soli il petrolio. 

La Libia? Può diventare la nuova Somalia

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In Libia tutto gira intorno a una questione, ovvero chi controlla l’estrazione e la vendita dell’oro nero. È subito chiaro quale sia la posta in palio, se si pensa che il 70 per cento del petrolio viene esportato, che il 95 per cento delle entrate fiscali dello Stato derivano proprio dallo sfruttamento degli idrocarburi, che il blocco dei pozzi e dei porti operato quest’anno dalle milizie ha fatto passare la produzione di petrolio da 1,5 milioni a 200-250mila barili giornalieri, che in soli sei mesi la Libia ha perso 8 miliardi di dollari e perciò dovrà tagliare pesantemente il budget, probabilmente andando a toccare i popolari sussidi per il carburante, il riso o lo zucchero. Proprio quei mancati introiti hanno spinto il Fondo Monetario Internazionale a rivedere in modo clamoroso le stime di crescita del Pil, da un più 25,3 per cento a un meno 7,8 per cento, e a prevedere un deficit di bilancio pari al 29 per cento del Pil. 

Ma il caos libico fa bene al nostro export

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Il boicottaggio delle attività produttive è diffuso anche a ovest e sud-ovest, ma la faccenda si fa delicata soprattutto nell’est, appunto la Cirenaica, la regione con capitale Bengasi, ricca di petrolio, storicamente in conflitto con Tripoli e in prima linea nella cacciata dei colonizzatori italiani e poi di Muammar Gheddafi. Qui la questione economica s’intreccia infatti da sempre con la rivendicazione di un’autonomia culturale e politica, al punto che a novembre scorso è stato proclamato il governo autonomo di Cirenaica (senza però ruoli agli Esteri e alla Difesa), guidato da Abdo Rabbo Al Barassi e intenzionato a strappare il massimo grado di autonomia da Tripoli proprio a colpi di boicottaggio dei porti e di estrazione di petrolio. Braccio armato di questa strategia sono le potenti milizie locali di Ibrahim Jadran, un ribelle che è stato decisivo nella guerra contro Gheddafi e che era stato incaricato di gestire la sicurezza di alcuni impianti petroliferi. 
Del caos libico deve preoccuparsi l’Eni, le cui attività sono concentrate prevalentemente nei giacimenti offshore di Bahr Essalam (che attraverso la piattaforma di Sabratha fornisce gas al centro di trattamento di Mellitah, che lo convoglia poi al gasdotto Greenstream per l’esportazione verso l’Italia) e di Bouri (petrolio), e in quelli onshore dell’area occidentale, ovvero di Wafa (gas e petrolio) ed Elephant (petrolio), mentre nell’area orientale c’è Abu Attifel (petrolio).
«In Libia la situazione relativa alle nostre attività resta volatile», spiegano dall’Eni: «Nel primo trimestre dell’anno abbiamo prodotto mediamente nel Paese circa 215 mila barili di olio equivalente al giorno. Recentemente, nella parte occidentale del Paese, stiamo avendo una riduzione della produzione a Wafa, dovuta a rivendicazioni locali di carattere sociale ed economico. In Cirenaica abbiamo la realistica prospettiva di riavviare la produzione di alcuni campi ad olio, ovvero Abu Attifel e altri minori.
Attualmente la nostra produzione è di circa 175 mila barili di olio equivalente al giorno». A fine marzo, anche l’attività al campo di Elephant, a ovest, era stata fermata a causa degli atti di sabotaggio che avevano colpito l’oleodotto (a dimostrazione che i problemi non sono solo in Cirenaica), ma dall’Eni dicono di non riscontrare «un livello di emergenza tale da procedere all’evacuazione del personale espatriato»: «Nel breve periodo ci attendiamo il permanere di una situazione volatile, ma vediamo il lungo periodo con ottimismo. Siamo la prima società produttrice di idrocarburi in Libia, che per noi è il primo Paese come produzione di idrocarburi e che ha potenzialità per circa 2 milioni di barili di petrolio. Attualmente la quasi totalità della produzione libica proviene dalle nostre attività».
La crisi ucraina rende oggi ancora più cruciale, per l’Italia e per l’Europa, la pacificazione del Paese, soprattutto in propsettiva dell’inverno prossimo. Nel caso di uno scontro con Mosca, dalla Libia non avremmo tanto bisogno di più petrolio, che è facilmente trasportabile via nave anche da altri Paesi, ma di più gas, che appunto compriamo, oltre che dalla Russia, specialmente da Algeria, Libia e Norvegia.
Stabilità politica, produzione energetica e sicurezza sono strettamente intrecciati, e c’è da registrare come la Libia non stia facendo nessun passo avanti sull’ultimo aspetto. Anzitutto non esiste un vero esercito, e il rispetto della legge è appaltato spesso alle milizie, che però hanno ognuna una propria agenda. Non stupisce allora che sia proprio una di esse, la milizia di Zintan, a detenere Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi, che può comparire solo via video al processo in cui è imputato (e nel quale gli avvocati del capo dell’intelligence del Colonnello, Abdullah al Senussi, tra cui spicca anche la fidanzata di George Clooney, Amal Alamuddin, denunciano di non aver mai potuto incontrare il loro assistito).
Non stupisce nemmeno che in questi mesi dei gruppi estremisti abbiano rapito prima lo stesso premier Zeidan, poi l’ambasciatore giordano e un diplomatico tunisino; o che ogni tanto si faccia viva con degli attentati Ansar al-Sharia, la milizia islamista che l’11 settembre 2012 si è resa responsabile dell’assalto al consolato americano di Bengasi e dell’uccisione dell’ambasciatore Christopher Stevens. Lo Stato libico rimane sotto ricatto, mentre della porosità delle frontiere approfittano i jihadisti internazionali vicini ad Al Qaeda.
Nel vuoto di potere, nell’assenza sia di un leader sia di attori esterni disposti a finanziare la stabilizzazione, tornano a farsi sentire anche i religiosi (La principale autorità del Paese, Sadek al-Ghariani, dopo aver emesso una fatwa sul velo delle insegnanti, ha chiesto ora al governo lo stop all’importazione di lingerie).
In tutto ciò, la situazione politica sta persino peggiorando. Dopo l’episodio della Morning Glory, i “federalisti” di Al Barassi e Jadran avevano stretto un accordo con il premier Abdullah al-Thinni, permettendo la riapertura dei porti di Hariqa e di Zueitina, fermi dall’estate scorsa, e iniziando le trattative per la riattivazione di Ras Lanuf e Es Sider. Una bella boccata d’ossigeno, considerando che dalla Cirenaica viene esportato circa il 50 per cento del greggio del Paese. 
Tuttavia oggi quell’accordo sembra di nuovo essere tornato in discussione. Il pragmatico al-Thinni, che in un mese aveva rimesso in moto il Paese dopo gli scarsi risultati del suo predecessore Zeidan e aveva appunto trovato l’intesa con i ribelli, ha subito un assalto armato e ha gettato la spugna. Dieci giorni fa, al suo posto è stato incaricato Ahmed Matiq, 42enne di Misurata, imprenditore del settore edilizio, proprietario di una catena alberghiera, islamico moderato, una laurea nel Regno Unito e una certa conoscenza dell’italiano. Con le elezioni che forse si terranno in estate, è tutto da vedere se Matiq, eletto dal Parlamento tra accuse di irregolarità, riuscirà a formare un governo e diventare il quinto premier dalla caduta di Gheddafi, avvenuta nell’ottobre del 2011. Nel caso, sarebbe sorretto da una maggioranza tutta nuova, visto che in Parlamento i 120 deputati indipendenti (su 200 totali) hanno ora deciso di sostenere con un ribaltone le fazioni islamiche e il partito della Giustizia e della Costruzione, ovvero i Fratelli Musulmani, e non più l’Alleanza delle Forze Nazionali dell’ex premier Mahmoud Jibril, di gran lunga il partito più votato nel 2012.
La stessa scelta di Matiq non è stata affatto gradita dal governo autonomo della Cirenaica, al punto che Abdo Rabbo Al Barassi ha anzi già annunciato che non riconosce come legale la sua nomina e non contratterà con lui la riapertura dei porti di Ras Lanuf e Es Sider.  La strada di Matiq è insomma già tutta in salita.

Daniele Castellani Perelli