Giornalettismo – 4 Marzo 2014

L’anniversario della rivoluzione è passato sottotono, il paese procede a rilento verso il completamento di un processo politico che dopo molte difficoltà dovrebbe condurre a una costituzione e a un parlamento democraticamente eletto e capace d’esprimere un governo in grado di gestire il paese. Al momento per molti libici si tratta di un miraggio.

In Libia la situazione è quantomai fluida, dal paese arrivano notizie incoraggianti e scoraggianti a giorni alterni,ma il bilancio finale tende al triste e il paese resta ancora sospeso in un limbo nel quale l’autorità è ancora affidata alle bande armate mentre la politica cerca faticosamente d’immaginare un assetto e un percorso attraverso il quale si possa ricostituire la legittimità e il funzionamento dello stato, che negli ultimi tre anni ha funzionato maluccio. Immaginare cosa sarà la Libia anche solo tra tre anni è esercizio d’altissima divinazione.

Una buona notizia è che Ali Tekbali e Fathi Saguer, deputati del Partito Nazionale Libico,  sono stati assolti dall’accusa di blasfemia e sono stati multati per aver «insinuato la discordia tra i libici. Rischiavano la pena di morte perché accusati invece d’insulto all’Islam perché per le elezioni del 2012 in un poster per la campagna elettorale avevano usato tra i personaggi di una vignetta la stessa figura usata dalla rivista francese Charlie Hebdo per raffigurare il Profeta in una vignetta giudicata offensiva. Nella vignetta del manifesto però si parlava di condizione della donna e la figura serviva solo come altre a sostenere il testo nel fumetto, ma la cosa ha fatto poca differenza per i fanatici che hanno trascinato i due davanti al giudice. Gli avvocati hanno comunque fatto ricorso contro il provvedimento in difesa del diritto alla libertà d’espressione, anche perché non c’era alcuna volontà di fare riferimento a Maometto da parte degli autori del manifesto.

Una cattiva notizia è che nel paese la situazione dell’ordine pubblico è ancora pessima,la produzione di gas e petrolio non è bloccata, ma è stata discretamente danneggiata dal sequestro degli impianti o dei porti da parte di questa o quella fazione. Una buona notizia è invece che finalmente si è completato il voto per la costituente, anche se cinque circoscrizioni elettorali hanno votato con un ritardo di una settimana perché le condizioni dell’ordine pubblico non hanno consentito di farlo nella giornata prevista.

Una cattiva notizia è che due giorni fa un gruppo di manifestanti armati alla meno peggio ha invaso il parlamento al grido di «dimissioni, dimissioni!» sfasciando l’aula, due deputati sono rimasti feriti da colpi d’arma da fuoco alle gambe, uno da una vetrata, altri altre nel parapiglia o perché sono stati malmenati. L’episodio dimostra da un lato la debolezza delle istituzioni libiche e dall’altra la relativa consistenza e pericolosità del movimento di piazza. Quelli che hanno invaso il parlamento sono infatti quelli che protestano perché il parlamento ha deciso di prolungare il suo mandato fino a fine dicembre, mentre doveva rimanere in carica scadere naturalmente il 7 febbraio scorso. La decisione non è apparsa dilatoria, ha senso aspettare il varo della costituzione prima d’andare a votare un parlamento eletto sulla base di regole provvisorie che dovevano fungere da ponte fino a che non si fosse completato il processo di rimodellamento istituzionale della repubblica libica.

Gli scontenti per parte loro non sono classificabili nella categorie delle bande armate più o meno legate al territorio e alle etnie, si erano tranquillamente accomodati in piazza a protestare da giorni e non erano una folla oceanica. Poi è successo che di notte alcuni figuri armati abbiano rapito due dei manifestanti, almeno questa è la versione più accreditata, attacco che ha spinto i manifestanti a puntare il dito contro le forze di sicurezza e la loro rabbia contro il parlamento. L’episodio ha mostrato peraltro che il parlamento non era per niente presidiato, circostanza che appare strana dall’esterno, ma che testimonia anche come la violenza che comunque si accende qua e là con costanza nel paese, non abbia ancora acceso quelle misure di protezione tipiche di chi teme attacchi da parte di terroristi o bande armate. Che in effetti non ci sono stati, i manifestanti inferociti non hanno ucciso nessuno anche se avrebbero potuto facilmente, si può dire anzi che abbiano misurato la violenza per evitare morti, sarebbe rimasta uccisa solo una guardia che evidentemente ha opposto una resistenza più strenua di quella dei suoi colleghi.

Dopo il gravissimo attacco lunedì il parlamento si è così trasferito all’hotel Waddan e ha condannato il rapimento dei due giovani dismettendo ogni responsabilità nella loro sparizione. Nelle stesse ore dalla regione di Bengasi giungeva notizia di sette morti. Cinque cadaveri di persone non identificate ritrovati nel deserto e due agguati, in uno dei quali un gruppo di uomini armati ha assalito il capo del consiglio militare della città di Sirte,  Makhlouf Ben Nasseur al-Ferjani uccidendolo a colpi d’arma da fuoco mentre si trovava a 500 chilometri dalla sua città. Nel secondo è invece morto un ingegnere francese impegnato nell’ammodernamento dell’ospedale di Bengasi, Jean Dufriche, ex console onorario a Bengasi, che nel 2013 aveva lasciato il paese dopo essere sfuggito a un tentativo d’assassinio. Evidentemente ha sbagliato a tornare e c’era chi lo aspettava ancora. Il paese può essere ostile per certi stranieri, nei mesi scorsi sono stati uccisi anche alcuni insegnanti.

La speranza è che una volta completato il processo costituzionale ed elettorale il potere delle milizie di fronte al governo vada calando per lasciare spazio all’autorità centrale, che però è abbastanza evidente che per ora appaia sgradita alle autorità che si sono andate formando localmente su base territoriale e tribale. Più che una remota spinta centripeta alla divisione del paese preoccupa la lotta in corso tra il primo ministro Ali Zidan e il gruppo dei partiti islamici che lo vorrebbero rimuovere per rimpiazzarlo con un credente meno interessato alla laicità dello stato e delle istituzioni. Partiti sostenuti e finanziati dai paesi del Golfo, spesso in contrasto tra loro,ma capaci di far blocco in nome della volontà divina, mentre dall’altra parte c’è l’Occidente, su tutti i francesi pesantemente impegnati nel paese e gli italiani attivissimi nella difesa dei contratti dell’ENI, che l’emirato non lo vuole proprio e che appoggia decisamente i libi più secolarizzati. Un dilemma dai molti corni, complesso e delicato al tempo stesso, che per ora si trascina in una cornice di violenza a bassa intensità verso una meta che le forze politiche non riescono ad afferrare.

(fonte: http://mazzetta.files.wordpress.com)

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