Corriere della Sera – 18 Febbraio 2014
I recenti successi della nazionale di calcio libica alla Coppa d’Africa non bastano per nascondere la triste realtà di un Paese ancora gravemente destabilizzato dall’incapacità di costruire una via solida al dopo-Gheddafi. A tre anni dalla rivoluzione garantita dall’ombrello Nato, la Libia resta impantanata in una crisi profonda. Uno Stato dal governo centrale debolissimo, diviso da lotte tribali feroci; lacerato dall’anima araba contrapposta a quella africana; spaccato tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan sahariano; soprattutto incapace di assorbire oltre 1.700 differenti milizie armate pronte a farsi la guerra per un nonnulla.

Un luogo privo di identità comune, dove tanti vorrebbero primeggiare nella consapevolezza che se si riuscisse a mettere finalmente in sicurezza e piena efficienza il sistema dell’esportazione di gas e petrolio sarebbero poi le entrate di valuta pregiata dall’estero a garantire un alto livello di vita. Ma dove nessuno è però ancora riuscito a raccogliere il consenso sufficiente per primeggiare. Gli eventi recenti non rassicurano affatto. In Cirenaica, specie a est di Bengasi, i gruppi radicali islamici fanno da padrone. La cittadina costiera di Dernah è considerata off limits dagli stranieri. La presenza di elementi pro Al Qaeda, persino in lotta con i Fratelli Musulmani di ispirazione egiziana, costituisce una minaccia costante per i tecnici delle compagnie petrolifere arrivati dall’estero.

Banditismo e fanatismo religioso si alimentano e sovrappongono a vicenda nella totale assenza di ordine pubblico. Ne è stata riprova il recente rapimento di due italiani che lavoravano a Dernah, liberati solo dopo il veloce intervento degli uomini dei servizi inviati da Roma e sembra grazie al pagamento di un forte riscatto. I pochi funzionari dello Stato centrale che osano reagire vengono metodicamente assassinati nella massima impunità. Più a ovest, verso le regioni centrali attorno a Sirte che restano il bastione delle tribù più fedeli al clan Gheddafi, rabbia, frustrazione e desiderio di riscatto sono di casa e vengono rafforzati dalla dura repressione tutt’ora praticata con pugno di ferro specialmente per volere dei più bellicosi tra i miliziani provenienti da quella che è ormai a tutti gli effetti la città Stato indipendente di Misurata. Anche sulle montagne di Nafusah, roccaforte di quelle stesse tribù berbere (gli amazig, come vengono chiamati in loco) che lanciarono l’attacco decisivo su Tripoli nell’agosto 2011, tira aria di autonomia separatista. I dirigenti berberi sono ben decisi a prendersi ciò che il verticismo accentratore e autoritario di Gheddafi aveva impedito a suon di arresti, punizioni collettive e persino assassinii: la libertà di parlare la loro lingua, assieme a scuole, istituzioni culturali, gestione dell’economia e dell’ordine pubblico assolutamente indipendenti.

Le conseguenze di questo mosaico di forze centrifughe si riverberano nella paralizzante incertezza che domina a Tripoli. Il 7 febbraio doveva sciogliersi il governo in vista di elezioni anticipate. Ma di fatto è rimasta in piedi la coalizione di minoranza guidata dal primo ministro Ali Zidan. Scelto dopo infinite trattative seguite alle elezioni parlamentari del 7 luglio 2012, Zidan è costretto a navigare a vista e in posizione di estrema debolezza da quando il fronte islamico è passato all’opposizione. Segno tangibile della sua impotenza è stato il rapimento durato alcune ore subito prima dell’alba il 10 ottobre scorso.

Ora si paventano possibili attentati e scontri di piazza in occasione delle celebrazioni di questo terzo anniversario della rivoluzione del 17 febbraio. Tre giorni dopo dovrebbero invece finalmente tenersi le elezioni nazionali per scegliere i 58 membri dell’assemblea costituente. In realtà avrebbero dovuto essere 60, ma l’astensione già dichiarata dei berberi toglie due deputati dalla quota prevista. “Meglio tardi che mai”, esclamano gli ottimisti. Eppure domina lo scetticismo. Due anni fa la prospettiva di una nuova costituzione democratica e rispettosa delle minoranze, la prima dopo il mezzo secolo di dittatura all’ombra del “Libro Verde” della Jamahiriha, eccitava ed incuriosiva corroborando un generale e speranzoso vento di attività partecipativa. Ora non più. Solo un milione dei circa due e mezzo degli aventi diritto al voto si sono registrati. Non è escluso che in questo contesto gli eletti alla costituente rinviino i lavori.

Originariamente si sperava che già a giugno potessero presentare il loro documento e sottoporlo al referendum popolare. Ma adesso si presenta la prospettiva di votare prima parlamento e presidente. E solo in un secondo tempo deliberare la nuova costituzione.”Siamo come sospesi. Il Paese è in mezzo al guado. Sono forse possibili progressi verso la pacificazione interna. Ma neppure si può escludere il precipitare nel vortice di violenze e attentati”, sostengono tra i circoli diplomatici occidentali a Tripoli.

Qui l’assassinio dell’ambasciatore americano John Christopher Stevens assieme a quattro connazionali il 12 settembre 2012 nel consolato Usa di Bengasi ha lasciato un segno profondo. Oggi sono le stesse rappresentanze straniere in Libia a suggerire agli uomini d’affari dei loro Paesi di limitare al massimo gli spostamenti. Regioni meridionali e orientali sono altamente sconsigliate. I giovani che si rivoltarono nel 2011 erano certi in cuor loro che tre anni dopo la situazione sarebbe stata infinitamente migliore. Ma oggi regna forte il sentimento della disillusione. Ne sono un simbolo tangibili i grafici dell’estrazione di barili di petrolio. Un dato seguito con trepidazione anche dai dirigenti dell’Eni. Non è un caso che proprio a Roma sia programmata per il 6 marzo un’importante riunione volta a rilanciare il futuro del Paese. Un anno fa, prima del blocco estivo di terminali e oleodotti vittime dell’anarchia trionfante tra le milizie super armate grazie ai vecchi arsenali dell’ex dittatura, la Libia estraeva ben oltre un milione di barili quotidiani. Poi si scese a circa 300.000. Ultimamente la quota è risalita a 650.000 barili, secondo i dati forniti dalla Bloomberg (comunque solo il 42 per cento delle medie nel decennio precedente la morte di Gheddafi). E il trend resta positivo al momento. Ma sono successi effimeri. Sono sufficienti pochi commando armati per ricordare l’estrema caducità del sistema. Solo la pacificazione interna e il monopolio della forza nelle mani dello Stato centrale potranno garantire che la stabilità si sostituisca al caos.

Lorenzo Cremonesi