La Stampa.it – 30 Ottobre 2013

Da almeno quattro mesi ormai in Libia i siti di produzione gas dell’Eni sono a rischio, poiché le varie fazioni – armate – che si contendono il Paese usano gas, petrolio e anche acqua come strumenti di pressione politica. 

Il caso più famoso è quello del sito di Tobruk, non attivo appunto da quattro mesi ma che, riferiscono fonti diplomatiche a Tripoli, potrebbe riaprire già la prossima settimana, e il più recente è quello dell’attacco, la settimana scorsa, a una nave Eni nel porto di Mellitah, in Tripolitania. Sette settimane fa il gasdotto di Wafa ha dovuto dimezzare il gas che approda in Sicilia. Ma i mesi peggiori sono stati quelli del Ramadan, quando acqua ed elettricità venivano tagliate proprio per creare disagi alla popolazione.  

Il grave rischio della situazione libica, racconta un’alta fonte diplomatica che lavora sul campo, «è che ormai qualunque protesta anche improvvisata prende di mira i siti di produzione di energia». Oltre alle fazioni organizzate sul campo, che si schierano armi in pugno per posizionarsi politicamente rispetto alle elezioni per l’Assemblea costituente in agenda (in teoria) per l’inizio del 2014.  

L’Eni, spiega il vicepresidente Pasquale Salzano, ha ridotto da tempo la produzione «per evidenti motivi di sicurezza», e di fatto – come ha detto il presidente Paolo Scaroni presentando i risultati trimestrali un paio di giorni fa – è consapevole di quanto la Libia pesi sulla quotazione del titolo. 

Ma i primi a essere interessati ad evitare che la situazione precipiti sono i libici, con il ministro del Petrolio che proprio ieri ha ricevuto una delegazione Eni: con un Pil fermo a 56 miliardi, e costituito al 90 per cento proprio dai proventi dell’estrazione di petrolio e gas, i blocchi degli ultimi quattro mesi sono costati già 10 miliardi: per il 2014 c’è il rischio di non poter pagare gli stipendi ai centomila a libro paga per aver fatto la rivoluzione (anche se di fatto i miliziani erano 10mila, più 25mila nelle retrovie). 

Il governo italiano segue la situazione, e proprio la Libia è stata uno dei principali argomenti di cui hanno parlato Enrico Letta e Barack Obama nel chiuso dell’ultimo, recente incontro alla Casa Bianca: hanno concordato, data la delicatezza della situazione, di non dare «pubblicità» all’argomento, ma qualcosa è filtrato. L’Italia, per gli Stati Uniti, per la comunità internazionale, e per il retaggio di una storica influenza oltre che per la presenza di forti interessi nazionali, è in prima linea nella stabilizzazione della Libia. 

Operazione complessa e che passerà, si è deciso in quell’incontro nella Sala Ovale, per una Conferenza di pacificazione che si terrà a Roma nei primi mesi del 2014 (anche se non è chiaro se prima o dopo le elezioni per l’Assemblea in Libia). Ma Enrico Letta ha chiesto a Obama che l’Italia non sia lasciata sola nel difficile compito: quella Conferenza dovrebbe tenersi sotto l’egida della comunità internazionale, attraverso l’Onu. 

È l’unica via possibile, tentando di portare a uno stesso tavolo, in territorio amico, tutti i rappresentanti delle varie fazioni: tuareg, berberi, islamisti, divisi (e moltiplicati) per tribù e per le tre principali regioni, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.   

Uno degli ostacoli, è proprio nell’attuale premier provvisorio Ali Zidan: un governo troppo fragile per controllare il Paese, e fragile al punto che lo stesso premier è stato oggetto di un sequestro-lampo poche settimane orsono, e indebolito anche dall’esser diviso in due fazioni: i liberal-tecnocrati (come lo stesso Zidan) e gli islamisti della locale Fratellanza musulmana. Una Conferenza, quella di Roma che dovrà rovesciare i principi di quella precedente, di Parigi, che puntò tutto su «institution building» e giustizia: non ci si era accorti, evidentemente, che prima al Paese occorre un patto sociale e politico. Che fermi, anche, la possibile tripartizione del Paese, visto che la Cirenaica mira ad un’autonomia «federalista».  

Gli attuali attacchi ai siti energetici hanno uno scopo: le minacce di blocco del sito di Mellita sono state accompagnate da richieste di maggiore «rappresentatività» dei berberi all’Assemblea costituente, del riconoscimento del berbero come lingua ufficiale, e soprattutto del diritto di veto in quello che sarà il futuro parlamento libico. 

Antonella Rampino