Corriere della Sera – 11 Ottobre 2013

Cominciò cosi: «Cerco notizie dei seguenti connazionali non più rivisti dopo la loro partenza dalla Libia: Cannella Teresa e cu­gini Giacalone di Ain Zara, Giuseppe (Pippo) Lo Magno, Leonardi Eugenio, Bagni e la sorel­la…». Cosi nel2002 Paolo Cason creò il suo sito (www.paolocason.it), vero e proprio Facebook ante litteram, «per riannodare i fili delle amici­zie perdute», lui che compirà 65 anni lunedì prossimo e fu cacciato da Tripoli insieme ad al­tri 40 mila italiani, dalla mattina alla sera, da Muammar Gheddafi, il 7 ottobre di 43 anni fa.

In questo modo, Cason ha fatto ritrovare tra loro almeno 600 persone ormai sparse nel mondo (Stati Uniti, Australia, Nord Europa) dopo la diaspora: ex alunni delle elementari di Sidi Masri, ex compagni di classe all’istituto tripolino «Guglielmo Marconi» eppoi ex fidan­zati e fidanzate e i musicisti dei tanti comples­sini che allietavano le feste di quella gioventù. «Agli occhi del Colonnello eravamo solo un re­siduo del colonialismo fascista, perciò doveva­mo andar via», racconta Cason, che partì quel giorno dalla Libia insieme alla madre Tosca sulla motonave Tunisi («o forse si chiamava Sicilia, non ne sono più tanto sicuro, perché per il dolore ho rimosso tanti ricordi» ).

Cason nacque a Tripoli perché lì si erano tra­sferiti (da Treviso) i suoi genitori per lavorare (il padre Lino aveva un’impresa di camion). «Vita felice, convivenza pacifica con le altre co­munità, i greci, i maltesi, gli ebrei, città ospita­le, una casa grande in centro, tanti amici, tanti circoli e tante feste tra gli italiani». Fino a quel giorno, fino alla partenza: «Sul passaporto il timbro e quella scritta assurda, “indesiderato’, che mi faceva provare una tristezza enorme. Ma anche paura per il futuro e grandi dubbi sulla nuova vita che andavamo ad iniziare, per­ché l’Italia comunque la conoscevamo solo attraverso le lettere dei parenti, i libri di scuola, la televisione. Noi andammo a Latina, ospiti di mia sorella Lina, che previdente aveva lasciato la Libia un anno prima. Fui assunto alle Poste grazie alle “quote profughi”, parola orribile se ancora ci penso, ma alle Poste ritrovai la mia ragazza, tripolina anche lei e ci sposammo».

Nostalgia per la Libia? «Senza dubbio, ma non il desiderio di tornarci, con Gheddafi vivo. Lui, mi pare, il primo aprile del 2002, concesse una prima apertura, autorizzando a rientrare gli uItrasessantacinquenni. Ma c’era poco da fidarsi, sembrava un pesce d’aprile e infatti dall’Italia partì solo una sparuta delegazione. Solo più tardi, nel 2008, grazie al trattato fir­mato con Berlusconi, le frontiere si aprirono e io stavolta ne approfittai. La prima volta partii da solo e mi commossi all’aeroporto di Tripoli quando un poliziotto libico scrutando il mio passaporto mi disse in arabo: “Benvenuto”,  mahraba, perché aveva letto che anch’io ero nato là e finalmente ero tornato, dopo tanto tempo. Mi vennero i lucciconi a girare per la città, che non era cambiata per nulla dopo 40 anni. Così al ritorno a Roma, cominciai ad or­ganizzare dei veri e propri viaggi della memo­ria, con 15-20 rimpatriati per volta. In questi anni ho portato almeno 200 persone a rivedere le proprie case. L’ultima volta è stato per il Ca­podanno del 2011, un mese dopo è scoppiata la controrivoluzione e da allora non sono più andato. Se potessi però ci tornerei anche domattina, perché ogni viaggio a Tripoli mi corrobora l’anima. Ma oggi non c’è più sicurezza, ogni giorno arrivano brutte notizie, troppe milizie armate in giro, i miei amici libici che sento al telefono o contatto via Facebook mi racconta­no che l’acqua è azionata, la corrente viene a singhiozzo, e kabile (tribu, ndr) non dialoga­no tra loro e la pacificazione appare un traguardo lontano, forse chissà tra 4-5 anni. Oggi in Libia ci vanno solo quelli che ci lavorano o ci devono lavorare. E poi un paio di amici come Giancarlo Consolandi e Luigi Sillano, cacciati anche loro da Gheddafi nel ’70, che da sempre hanno a cuore le sorti del cimitero italiano. Da quest’estate, però, mi risulta che anche loro abbiano sospeso i viaggi. È troppo pericoloso».

Fabrizio Caccia