La Stampa – 12 Settembre 2013

Dodici anni dopo l’11 settembre ci sono poche città al mondo dove i miliziani di Al Qaeda possano girare indisturbati. Una di queste è Bengasi. Una tremenda esplosione, che non ha fatto vittime per puro caso, ha semidistrutto ieri mattina gli uffici del ministero degli Esteri della seconda città libica. Per Ansar al Sharia, la branca più attiva degli islamisti in Libia e Tunisia, si trattava di marcare un doppio anniversario. Perché un anno fa veniva ucciso da un assalto islamista l’ambasciatore americano Chris Stevens.

Oggi l’autunno della Libia è fatto di attentati, esecuzioni sommarie, furibondi scontri fra milizie e i pochi reparti dell’esercito regolare che cercano di disarmarle. A Bengasi come a Tripoli i miliziani, fra i 20 e 30 mila solo in Cirenaica, si sono tenuti i kalashnikov (che al bazar Sidi Hussein si trovano a 100 dollari) e hanno alzato il tiro. Ora vogliono gestire in proprio i proventi del petrolio e hanno bloccato quattro dei sei terminal da dove viene esportato il greggio libico.

La produzione è crollata da 1,6 milioni di barili al giorno a 130 mila. Non bastano neppure per i consumi interni. Ieri il premier Ali Zaidan ha promesso di tagliare «le mani» agli estremisti. Ma il controllo del territorio, anche a Tripoli, dove il signore della guerra locale, il salafita Hashim Bishr, guida 100 mila uomini armati, è pari a zero. L’intelligence americana, con i droni, ha individuato almeno una decina di responsabili dell’uccisione di Stevens. Uno di loro, Ahmed Khattala, gira indisturbato e rilascia interviste. Ma Obama non può eliminarlo con un drone, come probabilmente farebbe in Yemen o Pakistan, perché esploderebbe il vulcano islamista in tutta la Libia.

Giordano Stabile