La Repubblica – 20 Ottobre 2012

A volte le notizie sono sotto gli occhi di tutti, e ci rimangono per giorni e giorni. Immobili e polverose come le macerie della moschea sufi che si vedono ancora qui davanti, nel centro di Tripoli, sotto il minigrattacielo dell’hotel Radisson. Una moschea distrutta sotto gli occhi di tutti nella nuova Libia che un anno fa, il 20 ottobre, uccideva Muhammar Gheddafi sotto gli occhi delle telecamere.

I sufi sono una versione, una setta dell’Islam pacifica, individualista. Diffusa in tutto il Nord Africa, tollerata dai regimi, e anche da Gheddafi, perché lontana dalla politica.

I sufi rispettano e venerano i loro marabutti, una specie di santoni, di asceti che di solito vengono seppelliti lì dove sono vissuti. E qui, in quello che ormai è il centro di Tripoli, nel mausoleo di Al Shaab c’era un marabutto che viveva davanti al mare quando la città si fermava al forte turco della ex piazza verde. «I salafiti sono arrivati il 24 agosto: prima soltanto con due bulldozer hanno iniziato a spingere sui muri, ma la moschea non veniva giù», dice un cameriere indiano. «Sono tornati, con la polizia di lato che guardava e incitava, hanno capito come fare e in altri 2 giorni hanno distrutto tutto». Era il primo segnale: dopo il voto di luglio che aveva sconfitto gli integralisti islamici, i salafiti non sarebbero rimasti a guardare, e da allora la Libia del post-Gheddafi ha capito che il futuro non sarebbe stato un pranzo di gala.

Una dopo l’altra una decina di moschee o di mausolei sufi sono stati distrutti in tutta la Libia: Derna, Zliten, una bomba a Misurata, Rajma, Bengasi.

Anche dove erano forti le milizie “laiche”, i salafiti hanno sfidato il senso pacifico dell’Islam libico facendo saltare i mausolei sufi. «Non hanno puntato direttamente alle moschee vere e proprie», dice una studiosa occidentale che lavora a Tripoli, «quanto invece a tombe e mausolei presenti all’interno di moschee o scuole coraniche dei sufi, hanno distrutto

gli uffici e le biblioteche delle comunità». «Ovunque i salafiti vogliono imporre l’Islam dei primi compagni del profeta, dei “pii antenati”: qui hanno perso le elezioni e allora lanciano segnali mafiosi perché vogliono imporsi nel grande gioco per il potere in Libia; colpiscono i sufi perché sono i più deboli e i meno protetti, proprio come i Buddha di

Bamyan in Afghanistan», dice Aboubakr Fergiani, un giornalista e scrittore.

Ma come è possibile, però, che abbiano fatto tutto sotto gli occhi della polizia? Perché in Libia la polizia non c’è: ci sono le milizie. Lo Stato non c’è, ci sono le tribù, le città, i gruppi di potere, le fazioni religiose.

Quando abbatterono il mausoleo sufi di Tripoli a seguire i lavori c’erano gli uomini del Lejna Amnia al-Ulya (il Supreme Security Council – SSC), una delle milizie più forti, a cui si affida con fiducia anche il traballante governo centrale. Una milizia in cui l’infiltrazione, o meglio la legittima presenza dei salafiti è assai forte. E questo è il problema: la Libia non è controllata da uno stato, è in mano alle milizie. Mettiamo da parte i salafiti, passiamo alla milizia di Misurata: in queste ore i guerrieri della città martire della rivoluzione libica stanno martorizzando Bani Walid, l’ultimo caposaldo dei gheddafiani in Libia.

Per mesi le cose erano andate avanti tranquille, tutti sapevano che a Sirte e anche a Beni Walid c’erano gheddafiani, soprattutto perché lì vivono uomini e donne delle tribù warfalla e qaddafia, alleate strettissime del colonnello. La scintilla è stata l’uccisione del giovane rivoluzionario che scovò Gheddafi a Sirte: lo hanno catturato e torturato i gheddafiani di Bani Walid, e da allora è partito l’assedio. Deciso da Misurata, non dallo Stato libico. «Da giorni

hanno iniziato a sparare missili e razzi sulla città», dice un diplomatico, «ma tre fonti diverse parlano anche

di uso di gas, di armi chimiche, e abbiamo visto foto di cadaveri che sembrano colpiti da qualcosa di diverso delle armi convenzionali». La Libia del dopo-Gheddafi è piena di armi, e anche di armi chimiche: Misurata potrebbe aver deciso di sparare qualche proiettile di artiglieria caricato con agenti chimici contro quelli che per i misuratini sono solo “cani” gheddafiani.

Gli eredi del colonnello fanno sempre più paura: dall’Egitto con Ahmed Qaddafedam, il cugino del dittatore, dall’Algeria con la figlia e la moglie, dal Niger con Saadi, e dappertutto con decine di gerarchi dell’ ex regime un flusso di milioni di dollari sta entrando in Libia. Per pagare, corrompere, devastare. «Non c’è un piano chiaro, preciso, ma c’è

quasi un istinto alla distruzione, foraggiato con migliaia di dollari», diceva qualche giorno fa a Roma una fonte che riceve informazioni dall’intelligence. E infatti: a Tripoli da ieri manca l’acqua, i gheddafiani hanno sabotato l’acquedotto nel deserto, il Great Man River fatto costruire dal loro capo. Ieri sera, a sorpresa, il presidente Megharief ha fatto una dichiarazione per condannare l’attacco deciso dalle milizie di Misurata contro Bani Walid, ultimo segnale della sconnessione fra governo centrale e le brigate locali: «Dobbiamo fermare gli attacchi e trovare una soluzione

pacifica, scontri come questo possono scoppiare in altre parti della Libia come frutto di altri contrasti fra tribù o gruppi della società libica». Salafiti, gheddafiani, milizie senza controllo.

Ma poi naturalmente i jihadisti, quelli dell’attacco al consolato americano di Bengasi, quelli appostati nella Cirenaica. All’Est la confusione è talmente alta che gli americani – per il momento – hanno rinunciato ad attaccare con i droni o con le forze speciali i miliziani di Ansar Al Sharia, la brigata integralista che sta dietro l’uccisione dell’ ambasciatore Stevens.

«Se volessero sparare un paio di missili nel deserto forse colpirebbero qualche jihadista, ma getterebbero nel caos la rivoluzione antigheddafiana, accenderebbero un paese che ama l’America, ma non ce la fa a ritrovare pace e stabilità», dice un uomo politico che ha lavorato nel Cnt e adesso è tornato ai suoi affari.

Non c’è molto da aggiungere: un anno dopo la morte di Gheddafi, la nuova Libia ancora non è nata.

Vincenzo Nigro