Il Manifesto – 13 Luglio 2012

Sui risultati delle elezioni libiche di sabato scorso – quelli abbastanza definitivi sono arrivati soltanto ieri – abbiamo rivolto alcune

domande ad Angelo Del Boca, storico della Libia e del colonialismo italiano.

All’improvviso, dai risultati elettorali, la Libia si è scoperta laica, sembra per ora in controtendenza a Tunisia e a Egitto che, dopo le primavere arabe si sono invece scoperte islamiste. Ma quella della laicità non era una delle caratteristiche dell’epoca di Gheddafi?

Se verrà confermata la netta vittoria dell’Alleanza delle Forze Nazionali, moderate e laiche, diretta da Mahmud Jibril ex primo ministro del governo provvisorio, la Libia dovrà ringraziare, in un certo senso, l’ex dittatore Gheddafi, che è indubbiamente

l’artefice del processo di laicizzazione della Jamahiriya, l’uomo che ha contrastato con ogni mezzo, lecito e illecito, la penetrazione in Libia delle forze islamiste integraliste. Il debole risultato del Partito della Giustizia e della Costruzione, il braccio politico dei Fratelli musulmani, deriva anche dal fatto che Gheddafi ne ha praticamente sterminata la leadership e quasi sradicata l’organizzazione. Ma c’è un elemento ancora più importante che spiega la non affermazione islamista. Secondo un acuto osservatore

Anwar Fekini, nipote del leader libico Mohammed Fekini che per vent’anni, dal 1911 al 1931, contrastò in Tripolitania l’avanzata degli italiani, non è tanto all’eredità di Gheddafi che si deve il successo delle forze moderate di Jibril, quanto agli errori commessi proprio dai Fratelli musulmani. «Hanno fatto una campagna altisonante, – sostiene Anwar Fekini che ho chiamato direttamente in questi giorni – sfacciata, sostenuta da ingenti finanziamenti del Qatar e dell’Arabia Saudita, con toni addirittura urlati, che invece non è piaciuta ai libici, gelosi di creare, dopo la guerra civile, un governo stabile, moderato che faccia dimenticare i 40 anni di

dittatura di Gheddafi e i sette mesi di sanguinosa lotta intestina».

Chi è Mahmud Jibril?

Jibril deve l’inatteso successo al fatto di appartenere alla tribù dei Warfalla, che conta un milione di membri ed è la più numerosa e forte della Libia. È un uomo spregiudicato e molto ricco ed è stato uno dei personaggi molto legati a Gheddafi e alla sua famiglia, ma sempre su posizioni moderate. Tant’è vero che aiutò il figlio di Gheddafi Seif al Islam a formulare la Costituzione che la Libia non aveva. Seif al Islam è ancora in prigione a Zintan, e sulla sua detenzione c’è stato un giallo internazionale con l’arresto in Libia degli inviati del Tribunale penale internazionale dell’Aja rilasciati, con tante scuse dopo più di un mese e mezzo non a caso a pochi giorni dalle elezioni. Insomma Jibril aveva come caratteristica quella di agire dall’interno del regime, cioè dall’interno dei Warfalla che di fatto erano l’organizzazione di riferimento di Gheddafi. E ora, sempre pragmatico e attento ai rapporti di forza, apre a un governo di coalizione anche con le forze islamiste. Che dicono sì, mentre non è ancora chiaro l’atteggiamento del partito Al Watan (La nazione)

di Abd el-Hakim Belhaji, ex miliziano afghano vicino ad Al Qaeda e poi consegnato dall’intelligence britannica a Gheddafi.

Ora i Fratelli musulmani dicono che alla fine saranno più forti e rappresentati di quello che appare ora per via dei candidati “indipendenti”. È tutto da verificare. Va tenuto infatti conto che anche le decine e decine di eletti «indipendenti» alla fine rispondono ai nuovi partiti.

Quali sono i nodi che Jibril dovrà subito sciogliere per avere quella stabilità prova concreta della sua affermazione?

I problemi non mancano. Se Jibril avrà la vittoria in tasca, ce ne sono di gravissimi, a cominciare dal disarmo delle milizie, costituite da almeno centomila uomini che dispongono dell’importante arsenale creato da Gheddafi in 40 anni di potere, al quale si vanno ad aggiungere tutte le armi arrivate dall’esterno, dal Golfo e dall’Occidente, nella guerra civile tra insorti e lealisti. Inoltre c’è la Costituzione, per la quale Jibril ha accettato, forzosamente dopo le proteste armate a Bengasi, venti rappresentanti paritetici ciascuno

dalle tre parti del paese: Tripolitania, Fezzan e Cirenaica. Una commissione di 60 personalità che dovrà lavorare davvero, non sarà una vetrina “democratica”, a un nuovo assetto istituzionale. E Jibril è avvantaggiato dal fatto che ha avviato proprio il lavoro costituzionale con Seif al Islam.

Restano alcuni nodi irrisolti come la violazione dei diritti umani, la condizione spaventosa delle carceri denunciata da Amnesty International, la caccia al nero e la detenzione degli immigrati in fuga dai mille drammi africani…

L’Europa su tutto questo è stata a guardare e sulle elezioni direi che si è mantenuta “prudente”. Anche la Francia, così assidua e interessata con Sarkozy, con l’avvento di Hollande appare più guardinga. Restano tutte le questioni italiane. Il governo “tecnico”

di Monti ha inviato la ministra degli interni Severino a Tripoli per riattivare il Trattato di pace, sfrondato naturalmente degli aspetti militari che riguardavano la neutralità dell’Italia in un eventuale conflitto con la Nato. Ora la situazione è tutt’altro che chiara. A sentire la Severino sarebbe stato fatto tutto «per salvaguardare i diritti umani». In realtà l’interesse, sporco, dell’Italia è che il nuovo governo libico, chiunque esso sia, continui nella tragica tradizione di detenere in campi di concentramento gli immigrati africani in transito. Quanto al petrolio, unico vero interesse dell’Occidente nel pieno della sua crisi globale, possiamo stare “tranquilli”. Petrolio e campi di concentramento per i “clandestini”, anche con i moderati al potere in coalizione con gli islamisti: tutto continuerà come prima.

Tommaso Di Francesco