La Stampa – 13 Luglio 2012

Potrà anche apparire come una beffarda ironia della Storia, ma la realtà è che questa sorprendente vittoria dei moderati in Libia è l’ultima eredità di Gheddafi.

Si può legittimamente dire tutto il male che si vuole dei suoi 40 anni di violenze, tuttavia, quando vedremo sedersi sulla tribunetta del Parlamento non un barbuto seguace della Fratellanza Musulmana, ma un glabro signore di modi occidentali che, certamente, anche lui, ringrazierà Allah, e però poi farà riferimento ai valori della democrazia e al tempo nuovo che il suo Paese si appresta a vivere,

ebbene, tutto questo lo dovremo a quel dittatore che aveva fatto della Libia un feudo personale.

È politicamente scorretto trovare qualche traccia perfino positiva nella vita e nella eredità di un dittatore. Ma la “serendipity” è una straordinaria avventura della complessità del reale, e se Jibril e la sua Alleanza di forze moderate hanno ora potuto guadagnarsi la maggioranza dei consensi elettorali, questo risultato nasce anche dal processo di laicizzazione che Gheddafi aveva guidato nella costruzione della sua Jamahiryia.

Le Primavere arabe hanno aperto un terreno di confronto dove, in ogni singolo paese, lo scontro più aspro ha sempre avuto come

attore protagonista il movimento islamista: quale che ne fosse il nome, che si chiamasse Fratellanza Musulmana o Partito della Giustizia, era comunque un raggruppamento di forze, di personalità, di progetti, che puntava a raccogliere la maggioranza dei consensi grazie a una proposta che nel recupero politico della religione riusciva a sanare il vuoto identitario lasciato dal crollo dei vecchi regimi. In assenza di strutture politiche consolidate, e credibili, l’esercizio collettivo della pratica della fede era un rifugio dove i valori simbolici davano una confortante garanzia di fronte al rischio della palingenesi rivoluzionaria.

In Libia, questo non è avvenuto. A Tripoli, come a Bengasi, a Sirte, o anche laggiù nella calura sabbiosa di Sebha, il richiamo del muezzin riempie ancora i silenzi del cielo per cinque volte ogni giorno, e il venerdì nelle moschee il sermone dell’imam trova sempre orecchie attente; ma i quarant’anni di gheddafismo hanno posto la religione al margine della vita sociale, sostituendola con un costume che – pur senza ignorare l’Islam – privilegiava uno stile di vita tentato dalle abitudini e dalle fascinazioni del modernismo consumista.

La caccia del regime a qualsiasi conato di formazione politica religiosa è stata spietata, e se pure a Derna, nel cuore antico della

Cirenaica, s’era formato uno dei nuclei più intransigenti del jihadismo (la componente nazionale più numerosa del terrorismo qaedista è stata quella libica, in proporzione alla ridotta dimensione demografica del paese), un minimo di sospetto era sufficiente per finire i propri giorni nelle galere di Gheddafi.

Bastava comunque vivere le battaglie della Rivoluzione del 17 febbraio tra le file dei giovani twarr, un anno fa, dovunque, ad Ajdhabya come a Misurata o nella stessa Tripoli in rivolta, per capire subito come il grido che accompagnava la loro guerra – Allah u-akhbar, Allah è grande – non fosse per nulla un inno religioso, ma soltanto l’impeto liberatorio di una identità che accomunava clan, tribù, etnie, radici localistiche. E se pure qualcuno degli shebab rivoluzionari talvolta s’inginocchiava verso la Mecca, quella guerra era comunque anche per lui una guerra «laica», di libertà e di riscatto.

Due sono le componenti, sociali e politiche, che hanno retto la costruzione culturale di questo laicismo libico: un reddito relativamente alto, grazie ai proventi del petrolio, e una sorta di statalismo che nella fantasiosa struttura della Jamahiryia pilotava

i rapporti tra il potere e la vita quotidiana.

Naturalmente, tutto questo non vuol dire che Jibril non sia un fervente musulmano, né che dell’Islam non terrà conto nella costruzione del governo; ma la sua vittoria è anche la vittoria della complessità del reale nella vita dei popoli. Che sopravvive anche quando le rivoluzioni ne cambiano il corso.

Mimmo Candito