Corriere della Sera – 10 Luglio 2012

C’è ancora incertezza sul risultato del voto in Libia. Ma comunque vada a finire, questa stessa incertezza smentisce la drastica perentorietà di chi, anche se non nostalgico della dittatura di Gheddafi, evocava scenari calamitosi.

Dava per sicuro un plebiscito a favore del fondamentalismo islamico, si diceva certo che la democrazia non è cosa per la Libia in mano alle tribù che si sarebbero rivelate molto peggio di Gheddafi. Intanto, il risultato è incerto. E tutta quella perentorietà di chi, per ostilità preconcetta nei confronti della «primavera araba», non ha esitato a rimpiangere il volto truce ma rassicurante dei vecchi dittatori. A rimpiangere addirittura Gheddafi, uno dei maestri nell’uso della polizia politica onnipotente, della tortura, del terrorismo,

dell’antisemitismo di regime. Le democrazie occidentali oscillano, passano da un estremo di ottimismo a uno di pessimismo, e non considerano ciò che è esploso nel mondo arabo come un processo ancora aperto, in movimento, non univoco, non segnato da un esito necessariamente infausto. Senza illusioni per l’incanto della rivoluzione via Twitter, ma nemmeno con il distacco scettico di chi

sostiene che la democrazia è un lusso per i pochi, cioè «noi», che se lo possono permettere e che, lasciato a sé stesso e senza i «nostri» dittatori in grado di stabilizzarlo, il mondo arabo non può che produrre disastri a ripetizione. I segnali che vengono dalla Libia, ovviamente, sono contraddittori e talvolta nefasti: non sappiamo come vengono trattati i prigionieri politici, la stampa è soggetta a intollerabili restrizioni, gli islamisti invocano censura e punizioni corporali per chi inocula il virus del secolarismo blasfemo.

Eppure circa la metà di chi si è recato a votare ha scelto l’opzione più «laica» e più «democratica». Ovunque gli estremisti dell’islamismo prevalgono, ma di poco, non sfondano, trovano una resistenza quasi eroica di chi non vuole che la primavera araba si trasformi in un gelido inverno oscurantista e intollerante. Di chi non vuole che le speranze appassiscano e muoiano come accadde a Teheran, dove la fine del regime dello Scià ha portato una tirannia ancora più cupa. Perché sottovalutare questi segnali di resistenza laica e democratica? In Tunisia, una volta proclamati i risultati che vedevano prevalere il partito islamista, i giovani sono scesi in piazza per protestare contro i brogli e qualcuno, per imitare il gesto che ha simbolicamente dato vita alla «primavera araba», si è persino dato fuoco: non aveva dato la partita per chiusa e perduta. In Egitto il candidato dei Fratelli musulmani ha conquistato la maggioranza dei voti, con circa il 52 per cento, ma l’ altro candidato ha raggiunto il 48 per cento, e al ballottaggio molti egiziani, sconcertati dall’ idea di dover scegliere tra un rappresentante del fondamentalismo islamico e un candidato strettamente legato alla

classe militare di Mubarak, non si sono nemmeno recati alle urne. Il presidente egiziano si muove ancora con circospezione,

non si è ancora abbandonato a gesti e dichiarazioni particolarmente ostili nei confronti di Israele, ancora sostiene che il suo obiettivo non è l’ applicazione integrale del verbo coranico, il rifiuto di ogni sia pur minima separazione tra politica e religione, la subordinazione e la discriminazione delle donne. Non è detto, ovviamente, che le cose possano volgere al peggio e l’ esperienza insegna che l’ integralismo a un certo punto imprime un’ accelerazione verso l’ oscurantismo che poi sarà terribilmente difficile arginare.

Ma ancora non siamo a quel punto. Ancora l’ Occidente, gli Stati Uniti e ciò che resta di un’ Europa muta, fragile, incapace di una politica unitaria, potrebbero diventare interlocutori e punti di riferimento per chi, nel mondo arabo, si oppone alla deriva integralista. Un’ opposizione numericamente robusta. E, in Libia, addirittura una possibile sia pur risicata maggioranza. Perché chiudere la porta a

chi chiede più democrazia e non vuole piegarsi alla prepotenza dei fondamentalisti e degli estremisti? Perché liquidare con sufficienza chi in Egitto non vuole mollare piazza Tahrir ai seguaci del nuovo regime islamista, a chi propone una censura massiccia e asfissiante sulle tv e sui mezzi di informazione, a chi vuole imporre il test obbligatorio di verginità alle donne e vuole trasformare Il Cairo in una nuova Teheran? La partita è ancora aperta, appunto. E le democrazie non possono semplicemente contemplare con

compiaciuto scetticismo l’ evoluzione o peggio l’ involuzione di quei regimi. Prevale invece una rassegnazione che con molta disinvoltura indossa i panni del realismo. Una rassegnazione «conservatrice », che rimpiange l’ ordine del buon tempo antico e auspica per il mondo arabo una condizione permanente di minorità democratica. Meglio sarebbe un’ attenzione più costante, la denuncia di tutto ciò che potrebbe rovesciare la lezione della «primavera araba» e l’ appoggio a chi si batte per la democrazia e il laicismo. L’Occidente liberale e democratico, che si credeva onnipotente, può rassegnarsi così alla propria impotenza?

Pierluigi Battista