La Stampa – 17 Febbraio 2012

Tarek percorre lentamente la striscia sterrata che taglia in due il cimitero di Bengasi. «Questa linea – dice – divide il vecchio cimitero dai morti della rivoluzione. Il 20 febbraio io ero qui e aiutavo a seppellire i morti della rivolta del 19. Eravamo in tanti, tutti arrabbiatissimi con Gheddafi. Molti dei morti erano amici miei, erano usciti dalle loro case per chiedere un futuro migliore, ma Gheddafi non ha capito i motivi della protesta e ha fatto sparare contro la folla». Questo racconta Tarek al giornalista di Mtv news, tornato in Libia un anno dopo la rivoluzione per vedere che cosa fanno oggi i ragazzi incontrati la scorsa primavera. Tarek è tornato all’università – facoltà di ingegneria, dipartimento di elettronica – e fa lo scout: «Ho perso più di un semestre, ma non posso certo lamentarmi. I miei amici morti hanno perso la vita». Mohammed invece studia archeologia e fa il cassiere in un supermercato, «l’unico rimasto aperto anche nei giorni della rivoluzione». Da un cestino estrae un sacchetto di plastica con impresse le fotografie di Gheddafi e dei suoi famigliari: «Questo è uno dei sacchetti che vendiamo per i rifiuti». Lo ributta in un cestino: «Cosi’ sono finiti anche loro». L’anno scorso Mohammed era volontario nella ong «Youth for Change», giovani per il cambiamento, e anche adesso continua la sua attività politica perché, spiega, «il consiglio nazionale non si sta comportando bene, la sua condotta non è chiara, la gente lo sente distante, lontano». Il loro programma, scritto sullo striscione steso sul muro, si riassume in un’unica frase: «Cercate di essere onesti con noi». Ibrahim El Musmari spinge la sua carrozzella lungo un viale che ha gli alberi dipinti con i colori della bandiera libica. Ha perso le gambe quando un razzo anticarro ha colpito la sua jeep. Si lamenta: «Per noi feriti non c’è più attenzione. Dicono che abbiamo la priorità su tutti, ma non è vero, io non riesco neppure a incassare un assegno in banca, mi ignorano». Mawada ha 21 anni e l’anno scorso era una delle «volontarie per la rivoluzione» che comunicavano al mondo – via Internet – che cosa succedeva in Libia. Un anno dopo studia tecnologia dell’informazione all’università e lavora in una tv libera, Libya Alhurra. Porta il velo, perché «ognuna di noi decide cosa vuol fare, lo mettiamo per essere uniche e preziose, portarlo non significa che la libertà è ridotta». È stata un mese negli Stati Uniti, dove ha frequentato un corso intensivo sulla leadership. «In futuro voglio essere un leader». Per il momento, serve la Libia nella cucina di una scuola di inglese, dove si preparano duemila pasti al giorno per chi ne ha bisogno. Intanto aiuta a raccogliere materiale per girare un documentario sulla rivoluzione. «Chiediamo a chi ha fatto dei video con il telefonino di portarcelo, vogliamo raccontare che cos’è successo». Con lei nella tv lavora Yara, 17 anni: «In un anno siamo cresciute di dieci. Ma non abbiamo fiducia nel governo provvisorio. Purtroppo la rivoluzione non ha ancora dato i frutti che speravamo».

Marina Verna