Libertà – 10 Gennaio 2012

Il rapporto tra Italia e Libia e sempre stato forte e non si è mai spezzato e anche il fu­turo del paese nordafricano, dopo la fine della tormentata guerra civile e la scomparsa di Gheddafi, tornerà a parlare ita­liano. Ne è convinto Renato Marti, uno dei tanti italiani vis­suti in Libia dopa il periodo fa­scista e che dovettero lasciare il paese dopo l’ascesa al potere di Gheddafi.

«Eravamo italiani, italiani residenti all’estero. Questo a­vremmo dovuto scrivere nel censimento, se lo si fosse fat­to allora, negli Cinquan­ta. Ma quando vivevo a Tripo­li – ricorda Marti – non mi sen­tivo italiano, era come se non avessi nazionalità. Oggi, inve­ce, mi sento italiano, ma ne sano diventato consapevole negli anni».

Italo Balbo, governatore del­la Libia, nel 1939 censì gli ita­liani che vivevano nel paese nordafricano. Erano quasi il 13% della popolazione, concentrati soprattutto sulla costa in Tripoli­tania e Cirenaica: nella capitale Tripoli erano ben il 37% del­la popolazione, a Bengasi il 31%. A Sir­te, paese di Gheddafi, solo 300.

Dopo la guerra, gli italiani hanno svolto un molo importante nella ricostruzione. Vi ha partecipato anche la famiglia Marti, arrivata a Tripoli per caso: «Mio padre, O­doardo, è nato a Pe­rugia nel 1893 – ricorda Renato, che oggi vive tra Roma e Sabaudia – dopo a­ver fatto il militare e rimasto laggiù. Soffriva d’asma e decise di stabilirsi in Libia, preferendo il clima nordafricano a quello umbro. Con lui la moglie Rosa, sicilia­na, della famiglia Gueli, che in arabo vuole dire vita, e per questa fu detta Vitina».

Odoardo Marti era un bravo meccanico: tolta la divisa aprì una officina e via via incremento l’attività fino a partecipare alla costru­zione di centrali elettriche e grandi impianti. Il figlio Rena­ta nasce a Tripoli nel 1943: «Ci sono rimasto fino al 1962, poi siamo tornati in Italia. La capi­tale era una città piccola, mol­ta bella. Ricordo il lungomare, il corso centrale, i bei palazzi, l’architettura fascista, somi­gliava un po’ a Sabaudia (cit­tadina laziale di edificazione fascista, (gioiellino dell’architettura razionalista)».

Anche dopa la guerra di i­taliani in Libia erano tanti.

«Molti vivevano a Tripoli, qualcuno a Bengasi: le loro at­tività spaziavano in tutti i campi, per lo più conducevano grandi poderi, erano proprie­tari terrieri, a loro si deve l’im­pianto di gran parte di quei lussureggianti giardini che spesso si vedono in televisione. Gli italiani avevano creato im­prese e commerci, in generale erano benestanti e molta ric­chezza la riportavano in Italia».

E’ naturale che chi ha vissuto per tanti anni in Libia ora osservi con attenzione 1a situazione. «La Libia è diversa dagli altri stati arabi nordafricani: è un paese costituito da tribù, il clan e fondamentale. Il popolo libico non è molto religioso o, meglio, non è fana­tico, il fanatismo religioso, per quello che ho osservato, non è ancora penetrato in Libia. I li­bici sono berberi, hanno forte il senso della famiglia, in que­sto somigliano a noi italiani. Ma erano e restano molto di­pendenti dagli altri paesi, lo e­rano allora e credo lo saranno ancora».

E’ per questa che l’Italia continuerà ad avere un ruolo in Libia?

«Certo. Se si eccettua la pa­rentesi cruenta del fascismo i rapporti tra Italia e Libia sono stati sempre buoni. In Libia, potenzialmente, c’è molta ric­chezza, a partire dal petrolio e dalle produzioni ortofrutticole e vivaistiche, e grande capacità artigianale. Al di fuori di que­sto si importa quasi tutto. Cer­to i francesi, gli inglesi e gli a­mericani sono intervenuti spinti anche da interessi com­merciali, per questo credo sia stato inevitabile partecipare alla guerra. Il governo Berlusco­ni ha dovuto aderire altrimen­ti l’Italia non avrebbe potuto a­vere un molo nel futuro della Libia. Ma ora con la prossima visita di Monti l’Italia tornerà ad avere un molo importante».

Condizione essenziale la vicinanza geografica: Roma e Tripoli distano mille chilometri in linea d’aria.

«Certo noi siamo i più vicini e per questo avremo sempre rapporti con loro, ma è anche una questione caratteriale: l’i­taliano è sempre benvoluto. E’ vera: ci prendono in giro, a vol­te ci ingannano, ma ci conside­rano brave persone. Anche questa volta nella ricostruzio­ne della Libia dopo la rivolta a­vremo un ruolo, basti pensare che attualmente il 35% delle necessità libiche vengono sod­disfatte dall’Italia».

Parliamo della Libia pre Gheddafi.

«Nel primi anni cinquanta il re era Idris, veniva dalla fami­glia Senussi, la tribù più impor­tante, poi c’era la tribù Gadafi (si chiama così e non Ghedda­fi, perche la “e” e la “o” in arabo non esistono, noi italiani ab­biamo imparato l’arabo, era obbligatorio nelle scuole di al­lora). La tribù Gadafi era più ­piccola di quella dei Senussi, ma nel 1969 è riuscita a scacciare il re con l’appoggio degli inglesi e degli americani. Idris era un mo­derato. Allora tutta la gente col­ta di Tripoli parlava l’italiano, gran parte della classe dirigen­te aveva studiato in Italia. Dopo il colpo di Stato è cambiato tutto per gli italiani e anche per  la classe media libica. I miei in­segnanti sono stati uccisi o in­carcerati».

Prima dell’arrivo del Rais, italiani e arabi convivevano tranquillamente…

«A Tripoli si parlava e si scri­veva in italiano, e’ erano scuo­le italiane e arabe, si viveva in­sieme. Mio padre aveva com­prato una palazzina bombar­data, in pieno centro a Tripoli e l’aveva risistemata. Nell’ap­partamento sotto al nostro vi­veva una importante famiglia araba; la convivenza era del tutto normale. Dopo la rivoluzione all’uso dell’italiano si è affiancato l’arabo, la polizia era diventata musulmana. Vici­no a casa nostra c’era la catte­drale, recentemente l’ho vista in televisione: è stata trasfor­mata in moschea. Le imprese dovevano essere in compro­prietà con un arabo, i film al cinema prima erano tutti in lingua italiana con sottotitoli in arabo, negli anni successivi si usava solo l’arabo».

La famiglia Marti nel 1962 rientra In Italia.

«Mia padre ha avuto l’intelli­genza di capire che quella non era casa sua, al contrario di molti italiani che pensavano di poter rimanere per sempre. Noi siamo stati fortunati, chi è rimasto ha perso tutto e il go­verno italiano non ha certo fat­to una bella figura, lo stato ita­liano in quella occasione è scomparso. L’unica cosa che fece per gli italiani, cacciati dalla Libia nel 1970, è stata da­re un lavoro a chi non l’aveva, ma per i danni subiti, le case, tutte le attività perse non ha minimamente contribuito. Gli

italiani che lasciavano la Libia potevano portare via solo la va­ligia, non credo siano riusciti neanche a portare via i gioielli di famiglia e non ci sono stati risarcimenti. Certo, i danni li hanno fatti i fascisti, magli ita­liani che erano lì negli anni Cinquanta e Sessanta no, loro hanno creato lavoro e benessere per tutti».

Poi, nel1969 arriva al pote­re Gheddafi.

«Una persona che ha studia­to, dice di essere di Sirte ma lì non c’erano scuole, deve aver fatto le superiori a Tripoli, dove la formazione era nasseriana, i professori venivano dall’Egitto. Di certo ha ricevuto una for­mazione militare: era sicura­mente un fanatico, ma devo di­re che non credevo fosse un as­sassino così crudele. Mi hanno colpito le immagini delle fosse comuni. E mi ha stupito anche che sia restato al potere così a lungo, pensavo lo togliessero di mezzo prima, per resistere così a lungo deve aver ammazzato o  comprato molte persone».

Durante l’era del Rais come vivevano le donne?

«Quando io ero ragazzino e­rano tutte coperte, si vedeva solo un occhio, ora vanno a volto scoperto. Quando vivevo a Tripoli la donna era sostan­zialmente una schiava, aveva un ruolo solo nell’ambito della casa, fuori non contava nulla. Con Gheddafi le ragazze erano diventate più libere, dal buio in cui stavano hanno aperto una finestra, ma credo che il meri­to sia stato anche del progresso più genera­le, arrivato con la tecnologia».

E ora dopo la fine Gheddafi?

«La guerra poteva e dove­va finire prima. L’hanno fatta durare di più perche c’era interesse a vendere armi. O­ra gli interessi si sono sposta­ti sul petrolio e sulla ricostruzione della Libia. E l’Italia a­vrà il suo ruolo e la parte che gli spetta».

Anna Bertoli